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Oltre il 3 ottobre

A Lampedusa ci si saluta con l’espressione o’scià, parola dialettale che sta per “fiato”, “respiro”, “animo”. I ragazzi eritrei sopravvissuti alla strage del 3 ottobre del 2013 – 368 morti, solo 155 sopravvissuti – la conoscono bene e, tornati nell’isola che li ha salvati e accolti, salutano con questa espressione dialettale che esprime affetto e persino d’amore. 

Dal 2017 il 3 ottobre è stata ufficialmente istituita come Giornata nazionale della memoria per le vittime dell’immigrazione, ma l’isola non ama le celebrazioni ufficiali e si divide tra chi vuole coltivare la memoria intima e personale della tragedia di sette anni fa e chi, invece, inveisce contro gli immigrati. La situazione è tesa e l’insofferenza nei confronti della strumentalizzazione politica dell’isola si fa sempre più generalizzata. Ogni anno il 3 ottobre l’Italia ricorda la strage di Lampedusa ma già dal giorno dopo l’isola entra in cronaca solo per gli sbarchi. E i lampedusani si ritrovano soli, con il loro poliambulatorio che eroga servizi insufficienti rispetto ai bisogni sanitari della popolazione, con la carenza di insegnanti stabili, con i redditi della pesca sempre più incerti e rischiosi a causa degli sconfinamenti della barche tunisine. 

Attraverso Mediterranean Hope, la Federazione delle chiese evangeliche in Italia (Fcei) è presente sull’isola sin dal 2014. Tra operatori e volontari, due o tre persone sono costantemente presenti sull’isola dove svolgono varie attività: accoglienza al porto dei migranti che arrivano in autonomia, recuperati dalle Ong o dalla motovedette della Guardia Costiera, assistenza agli operatori delle Ong, servizi di mediazione culturale e assistenza legale per i richiedenti asilo, monitoraggio e comunicazione sui flussi migratori mediterranei. Ma, sin dai primi tempi, si è strutturato un altro filone di attività rivolte alla comunità lampedusana che comprende, a esempio, il sostegno alla biblioteca locale e alle sua attività educative post-scolastiche, l’impegno in vari progetti ambientalistici tesi a recuperare e salvaguardare il patrimonio naturalistico dell’isola, la promozione di attività culturali nei mesi in cui Lampedusa si ritrova senza turisti e molte attività commerciali chiudono in attesa della stagione successiva. 

«Negli anni abbiamo capito che, per sostenere al meglio gli immigrati e i loro diritti, dobbiamo coinvolgere la popolazione locale, ascoltare i suoi bisogni e condividere i suoi progetti. E per questo ci siamo impegnati con convinzione nel Forum Lampedusa Solidale», spiega Marta Bernardini, una degli operatori che da più tempo segue con continuità il lavoro sull’isola. «E la gente ci premia con la propria fiducia – prosegue – perché capisce che non siamo quelli “del 3 ottobre” che arrivano per montare il setdella frontiera, lo descrivono con tinte fosche e drammatiche e poi spariscono il giorno dopo. Ci percepisce come parte della comunità isolana e questo aumenta la nostra responsabilità». 

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Conferma don Carmelo La Magra, che da quando è arrivato sull’isola come parroco ha sempre sostenuto Mediterranean Hopee costruito un rapporto di piena e fraterna collaborazione con i suoi operatori: «Quello che viviamo a Lampedusa è un ecumenismo quotidiano, fatto di gesti concreti che ci procurano insulti e minacce. Ma abbiamo imparato a essere forti e far sentire la nostra voce, magari dormendo sul sagrato della chiesa quando chiedevamo che i migranti bloccati sulle navi delle Ong fossero fatti sbarcare; o facendo memoria del 3 ottobre senza le fanfare e i riflettori ma nel rispetto dei morti, del dolore della comunità isolana che li ha visti e contati e in coerenza con la nostra coscienza cristiana».

Due sono stati i momenti commemorativi del 3 ottobre del 2020: una preghiera alla Porta d’Europa – aperta nella raffigurazione dell’artista Mimmo Palladino ma drammaticamente sbarrata sul piano delle norme italiane ed europee – e una celebrazione ecumenica in parrocchia di fronte a una folla di lampedusani e di turisti. Sul pulpito si sono alternati cattolici e protestanti, tra loro il professore e pastore valdese Daniele Garrone, la vicepresidente della Fcei Christiane Groeben e l’arcivescovo di Agrigento Francesco Montenegro. Al centro della chiesa, davanti all’altare, un albero che esce dal mare, simboleggiando la forza del valore della solidarietà che si deve a chi rischia la vita; ma l’albero soffre la morsa soffocante di un filo spinato che rappresenta la violenza del razzismo e della xenofobia. «Nostro compito è liberare quell’albero dal filo che lo stringe», ha spiegato Marta Bernardini illustrando l’installazione ideata da Francesco Piobbichi. Un altro 3 ottobre è passato ma quei provvedimenti che dovrebbero evitare che si ripetano tragedie come quella di del 2013 non sono entrati nell’agenda europea. 

Foto di Niccolò Parigini