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Crocifisso in aula, nuovo capitolo

A quasi dieci anni di distanza dalla pronuncia della Cedu nel caso Lautsi v. Italia, l’esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche torna a far parlare di sé. Approda alle Sezioni Unite della Cassazione la vicenda di un insegnante di lettere, sanzionato disciplinarmente con una prolungata sospensione dall’insegnamento per essere solito rimuovere il crocifisso all’inizio delle sue lezioni, per poi ricollocarlo sulla parete una volta terminate. Se in Lautsi la questione verteva sul riconoscimento del diritto ad un’educazione conforme alle convinzioni filosofiche e religiose dei genitori e sulla potenziale influenza del simbolo sulla formazione degli allievi, nel caso di specie l’insegnante invoca il suo diritto alla libertà di insegnamento e di coscienza in materia religiosa, in nome del principio di laicità dello Stato. 

La prassi della rimozione del crocifisso dalle sedi pubbliche, o del rifiuto della prestazione di lavoro in sua presenza, è nota. Si ricorderanno precedenti di insegnanti (ma anche di qualche magistrato e scrutatore di seggio), le cui proteste hanno dato vita a contenziosi simili a quello odierno, il quale, tuttavia, presenta una particolarità in più. La vicenda è stata infatti innescata dalla richiesta di esposizione del crocifisso nell’aula da parte dagli stessi alunni, nel corso dell’assemblea di classe. Il dato non è di poco conto e non solo per gli interrogativi che una tale volontà pone alla riflessione comune sul ruolo della scuola pubblica come luogo di formazione plurale. Si tratta infatti della ricerca del bilanciamento tra due posizioni contrapposte garantendo, da un lato, la libertà di insegnamento come espressione culturale del docente e, dall’altro, il rispetto della “coscienza civile e morale degli alunni”, che con quella decisione si è manifestata.

La controversia intreccia temi di grande rilevanza, a partire dal significato da attribuire al simbolo, elemento tutt’altro che pacifico, per giungere alle questioni della libertà religiosa, delle discriminazioni sul luogo di lavoro in ragione del credo, in uno con la portata attuativa del principio di laicità.

Il complesso esame della questione parte da un dato centrale, su cui le Corti italiane mostrano da sempre un significativo disaccordo e che pertanto rende necessario e auspicabile l’intervento delle Sezioni Unite. Si tratta della valenza da attribuire al crocifisso e dei significati che ad esso sono ricollegabili.

Se, per un verso, in più occasioni la magistratura amministrativa ha affermato che in ambito scolastico il crocifisso svolge una funzione simbolica educativa nei confronti degli alunni, credenti e non credenti, per il richiamo a valori laici, sebbene di origine religiosa, come la tolleranza, il rispetto reciproco e la valorizzazione della persona, di contro la Corte di legittimità ha più volte affermato che l’esposizione del crocifisso è il frutto di un principio che non trova più ospitalità nel nostro ordinamento e cioè quello della religione cattolica come unica religione dello Stato, sancito dall’art. 1 dello Statuto albertino. Ne consegue che il crocifisso altro non può essere che un simbolo esclusivamente religioso e nessuno richiamo alla presunta coscienza sociale può servire a superare il principio di uguaglianza sancito dalla Costituzione all’art. 3.

Valore escatologico, dunque, e non meramente culturale, quello del crocifisso, assunto peraltro già confermato in Lautsi, quando l’affermazione della valenza religiosa del simbolo fu l’occasione per determinarne anche la natura “passiva”, non in grado cioè di condizionare la libertà degli alunni orientandone la formazione, come avverrebbe, ad esempio, nel caso della partecipazione ad attività con funzioni religiose. Nel caso dell’insegnante tale passività può tuttavia essere messa in dubbio. Ciò qualora l’esposizione del crocifisso assuma anche il significato di manifestazione del legame tra la funzione educativa e i valori del credo religioso richiamati dal simbolo. In tal caso quell’esposizione comporterebbe una lesione della libertà di coscienza e religione, ponendosi in contrasto con il principio di laicità dello Stato, intesa come tutela del pluralismo a sostegno della massima libertà di tutti. Né potrebbe escludersi una discriminazione, avendo in più occasioni la Corte costituzionale affermato che in tema di religioni il criterio della maggioranza non trova applicazione, essendo la coscienza di ciascuna persona degna di pari protezione.