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Caucaso, si riaccende il Nagorno-Karabakh

Torna a far parlare di sé uno dei conflitti dimenticati alle porte d’Europa, quello del Nagorno-Karabakh, territorio che si proclamò indipendente dall’Azerbaigian nel 1992 con il sostegno dell’Armenia e che da allora è al centro di una contesa regionale apparentemente senza via d’uscita.

Nella mattina di domenica  27 settembre questa regione, che dal 2017 porta il nome di Repubblica dell’Artsakh, è stata scossa da bombardamenti e da combattimenti su una scala che non si vedeva almeno dal 2016, anno dell’ultima significativa escalation.

Mentre sul terreno i soldati, i droni e gli aerei militari portano avanti le loro operazioni, dai governi di Armenia e Azerbaigian sono arrivate dichiarazioni contrastanti, riproponendo un copione già consumato in questo conflitto apparentemente congelato dal 1994. Secondo Baku, le forze armene avrebbero tentato di riprendere le posizioni perdute con azioni militari nelle direzioni di Fizuli-Jabrailsky e Agder-Tertersky, ma sarebbero state respinte dalle truppe azere, che ora riferiscono di portare avanti un’offensiva per conquistare la cittadina di Fizuli. Erevan, da parte sua, sostiene che le forze separatiste armene del Nagorno-Karabakh abbiano “respinto le offensive azere in vari settori della linea del fronte” e annuncia “gravi perdite” tra le file azere. Gli azeri dichiarano invece che «una colonna motorizzata e una unità di artiglieria armene sono state distrutte». Sono oltre 100 le vittime, tra militari e civili, ma la situazione è in costante evoluzione.

«È presto per fare un bilancio – racconta Simone Zoppellaro, giornalista e scrittore che da anni segue e racconta questo territorio – ma la situazione è estremamente tesa, perché è un’escalation molto diversa da quella che abbiamo avuto in passato. L’ultima era stata a luglio, ma non era assolutamente paragonabile a quello che è avvenuto in questi giorni, da ieri a oggi».

Sia il presidente de facto del Nagorno Karabakh, ovvero Arayik Harutyunyan, sia il premier almeno Nikol Pashinyan, hanno annunciato una mobilitazione generale, hanno dichiarato la legge marziale nei rispettivi territori. Domenica pomeriggio, anche il Parlamento azero ha fatto lo stesso. Che cosa significa in termini pratici, al di là delle dichiarazioni? Ci dobbiamo preparare a una crisi di durata maggiore rispetto al solito?

«È possibile. Purtroppo i fattori in campo sono tanti. Come dice l’analista Thomas de Waal, forse il più accreditato a livello internazionale per questo conflitto, se entrambi le parti raggiungessero entro pochi giorni i risultati che cercano a livello di propaganda, che ha un valore fondamentale, allora la crisi potrebbe chiudersi in pochi giorni. Se ciò non avvenisse potrebbe durare più a lungo. Le preoccupazioni sono tante anche a causa di un elemento di novità relativo, ovvero l’intervento turco, che date le dimensioni del conflitto è una variabile notevole. Sono stati avvistati già da giorni ed era stato annunciato da un analista di Al-Monitor il fatto che alcune centinaia di combattenti delle milizie siriane fossero stati mandati dalla Turchia all’Azerbaigian. Ieri si è parlato anche dell’utilizzo di jet turchi in questi bombardamenti, e questa è una novità molto inquietante che richiama pagine del passato brutte come quelle del genocidio armeno, almeno da un punto di vista simbolico ma non solo».

Perché questo territorio, di cui nessuno riconosce l’indipendenza, interessa a così tanti attori, regionali e non?

«Prima di tutto interessa molto all’Azerbaigian perché a Baku c’è una dittatura al potere dal 1989. La famiglia Aliyev è al potere e punta molto sul nazionalismo, mentre per fortuna la religione non ha molto a che fare con questo conflitto. Per il nazionalismo azero il fatto di poter recuperare i territori perduti in passato, anche solo poche posizioni per mantenerle come avvenuto ieri, è un dato di propaganda e di consolidamento interno fondamentale in un momento in cui ci sono state grandi perdite sia a causa del coronavirus sia a causa della caduta del prezzo del petrolio, che rappresenta il maggiore introito di questo Stato. Poi naturalmente sono implicati altri paesi, abbiamo ricordato la Turchia, c’è la Russia che è legata all’Armenia ma non al Karabakh, perché l’accordo di cooperazione militare fra Armenia e Russia prevede un intervento della Russia, che ha anche basi in Armenia, solo nel caso in cui venga toccato il territorio armeno, cosa che non avviene naturalmente se il conflitto è solo in Karabakh. E naturalmente poi c’è anche l’Iran, che ha avuto un ruolo in passato e potrebbe avercelo ancora, soprattutto se questo conflitto si dovesse riaccendere a lungo. Domenica un missile è arrivato anche in Iran, come era già capitato nel 2016, quindi parliamo di una zona assolutamente a rischio che potrebbe creare una concatenazione di interventi e rendere questo conflitto, che oggi è piccolo e su scala regionale, un grande conflitto internazionale. Il timore è davvero tanto».

Quando si parla di zone poco conosciute sia a livello di immaginario sia a livello di popolazaione, tendiamo a ragionare sempre e soltanto in termini geopolitici. Ma per chi rimane in quel territorio, quelle persone che vivono in questa zona di costante conflitto e che non viene riconosciuta da nessun ramo del diritto internazionale, che cosa significa?

«Significa che il Karabakh è largamente militarizzato. Generazioni intere di armeni e azeri in entrambe le parti sono state mandate al fronte in situazioni molto tese, portando anche a continui suicidi. Questo è un tema tabù anche in Armenia, ma ci sono stati tantissimi suicidi fra questi ragazzi mandati in frontiera, in prima linea per attendere davvero i colpi del nemico che poi purtroppo abbiamo visto arrivano, e poi sospesi tra nonnismo e pressioni. Questo dal punto di vista militare, mentre da un punto di vista civile, parliamo di una piccola popolazione, sono circa 150 mila persone, e oltre a questo naturalmente gli azeri e gli armeni che vivono da entrambi i lati della frontiera e finiscono per essere continuamente colpiti. Le loro vite sono legate con un filo diretto da 30 e più anni a questo conflitto. Per una scala così ridotta è una situazione drammatica e servirebbe davvero un impegno anche della società civile per portare un’iniziativa di pace. Ricordiamo che il cessate il fuoco è del 1994, ma tutte le iniziative di pace che sono state provate sono state dei fallimenti. Sarebbe davvero ora, prima che si arrivi di nuovo ad avere decine di migliaia di morti come all’inizio degli anni ’90, di arrivare a fare delle pressioni perché l’agenda internazionale rimetta in piedi fra le sue priorità quella del Karabakh e quella di una pace in questo piccolo territorio».