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Como, «resistere alla strumentalizzazione delle paure»

La salma di don Roberto Malgesini ha lasciato ieri 17 settembre Como. Oggi pomeriggio, nella sua natia Cosio, in Valtellina, si svolgerà il funerale.

Restano a Como le cose che ha fatto, le ore spese in favore degli ultimi, le polemiche politiche, una città dove accogliere è in qualche modo reato.

Per l’omicidio del parroco è indagato un cittadino tunisino (che oggi avrebbe ritrattato), in passato aiutato dal prete. Avrebbe problemi psichici e provvedimenti di espulsione non eseguiti. Stamattina è stato convalidato l’arresto e disposta la misura cautelare in carcere.

Dina Mensah, valdese, originaria del Ghana, lavora in città come educatrice e ha conosciuto don Roberto. «Faccio ancora fatica a crederci. L’ho visto un mese fa, sarà faticoso riempire questo vuoto. E penso sarà lo stesso per chi ha avuto la fortuna di conoscerlo. Da un paio di anni, lavorando nell’area immigrazione, ho incontrato lui e don Giusto della Valle (un altro prete impegnato a Como per l’accoglienza, nella parrocchia di San Martino a Rebbio, ndr), due persone attivissime per aiutare i migranti. Lo ricordo come una persona molto timida e dolce, sempre pronta ad aiutare i più emarginati. Al dormitorio in cui lavoravo – dormitorio che è stato chiuso lo scorso agosto – portava spesso persone in difficoltà, quelle di cui non si occupava nessun altro…». A Como, racconta l’educatrice, «molti migranti “irregolari” purtroppo vivono per strada, e queste erano le persone che accoglieva don Roberto. Non mi sembra tuttavia che a livello di istituzioni si vogliano trovare soluzioni. L’uomo che è stato fermato per l’omicidio pare fosse in Italia da vent’anni, non sarebbe arrivato ieri con gli sbarchi. Chiediamoci cosa succede alle persone che ricevono il foglio di via…Questo per dire che ci sono questioni complesse e globali che andrebbero affrontate, legate al tema dell’accoglienza e delle migrazioni, e che questa tragedia non può essere strumentalizzata. Non possiamo dire se e come si poteva evitare, di certo evidenzia però che il sistema, nel suo complesso, non funziona».

Un sistema in cui vige una legge del 2002, la Bossi-Fini, che limita l’ingresso in Italia soltanto ai migranti già in possesso di un contratto di lavoro. Che ha fatto sì che le persone che non ottengono il permesso e quelle a cui scade senza che possano chiederne il rinnovo diventino da un giorno all’altro irregolari, con rimpatri difficili e molto costosi per lo stato.

«Dal 2003 al 2008 don Roberto era stato nella parrocchia di Lipomo, in provincia di Como, che anche io frequentavo, – dichiara Silvia Turati, operatrice di Mediterranean Hope in Libano, da dove si occupa dei corridoi umanitari e delle nuove iniziative di solidarietà a Beirut – anche io, come in tanti in questi giorni hanno detto, me lo ricordo come una persona semplicissima, tranquilla, pacata. Tutto il suo tempo lo dedicava agli altri. Spesso nemmeno cenava, faceva una vita davvero sobria, votata ad aiutare il prossimo».

Per Andreas Köhn, pastore della chiesa valdese di Como dal 2005 al 2019, «Purtroppo a Como è innegabile che vi sia un clima di odio verso il diverso, odio per migranti». Il riferimento è ad esempio ai provvedimenti che hanno tra l’altro «impedito di portare un bicchiere di latte ai senza dimora». Nel 2017 il sindaco Mario Landriscina, che guida una giunta di centrodestra a trazione leghista, firmò un’ordinanza con sanzioni amministrative da 50 a 300 euro per ripristinare «la tutela della vivibilità e il decoro del centro urbano». Più di recente ha fatto discutere il gesto (ripreso in un video) dell’assessora alle Politiche sociali del Comune di Como, Angela Corengia, che ha tolto la coperta di dosso a un senzatetto accampato sotto i portici di San Francesco, buttandola poi in un’aiuola vicina.

«Il “peccato da confessare” sarebbe questo – continua il pastore – ma voglio dire che c’è anche un’altra Como. Voglio sottolineare che esiste anche una comunità impegnata a costruire una società multiculturale. Noi come chiese protestanti ci siamo impegnate in questa direzione, realizzando anche importanti collaborazioni con l’Università dell’Insubria, rispetto ad esempio al tema della giustizia riparativa». Come rispondere dunque all’odio e alla violenza? «La migliore risposta da parte di comunità cristiane e società civile è continuare ad accogliere, proseguire l’impegno nell’accoglienza spicciola, concreta, che ciascuno può fare. Non possiamo rimanere storditi dall’orrore. A ciascuna comunità spetta il compito di continuare a lavorare per la cura e i diritti delle persone».

La rete comasca “Como senza frontiere”, con la quale collabora anche la comunità evangelica cittadina, cui aderiscono decine di sigle, partiti e associazioni locali, dall’Arci ai missionari comboniani di Como, ha pubblicato un testo dal titolo “Noi accusiamo”, pubblicato da ecoinformazioni.

«Il cordoglio – scrivono – non ci basta. Per commemorare don Roberto Malgesini è doveroso schierarsi dalla sua parte e contro la cattiva politica che produce intolleranza. È doveroso fermare i responsabili della violenza che si abbatte su chi vive per gli altri, come avvenne nel 1999 per un altro prete dell’accoglienza, don Renzo Beretta. Nel giorno dell’uccisione di don Roberto, lo stesso giorno in cui nel 1993 veniva assassinato a Palermo don Pino Puglisi, sentiamo il dovere di accusare le istituzioni che dovrebbero esistere per evitare queste tragedie e per contrastare odio e violenza».

Como senza frontiere rivolge poi delle domande: perchè don Roberto è stato lasciato solo ad occuparsi degli ultimi? E perchè il presunto colpevole non è stato eventualmente curato e seguito? «Perché – concludono i promotori della rete – chi governa Como ha irresponsabilmente ampliato la disperata guerra tra poveri con una sequela di atti che vanno dalla rimozione delle panchine a San Rocco, all’attacco a chi distribuiva le colazioni per non disturbare la Città dei Balocchi, a vietare le elemosine nel salotto buono della città, alle sanificazioni “forzate” a San Francesco (con o senza sottrazioni di coperte), fino alla folle inqualificabile idea di chiudere con una cancellata l’ex chiesa di San Francesco?».

La “nuova” pastora Anne Zell è arrivata a Como da poco più di un mese, dopo anni trascorsi in un’altra città lombarda, Brescia. Ma ha già una riflessione da fare, dopo quanto accaduto.

«Il nostro impegno deve essere ancora più franco, visibile e senza remore. Occorre rafforzare tutte le reti di dialogo e conoscenza reciproca. L’omicidio è successo dopo uno dei primi momenti cui ho preso parte in città, l’incontro con il tavolo inter fedi che è appunto una realtà dal basso, partecipativa. Credo siano ancora più necessari accoglienza e dialogo per resistere a questo clima di strumentalizzazione delle paure. Come chiese dobbiamo rafforzare la nostra presenza nella città. Non si può avere un atteggiamento cauto, dobbiamo chiederci  in che modo avremmo potuto essere più presenti e in che modo diventarlo». Le mezze misure, quando si parla di diritti, non possono esistere, insomma.

«Non ci sono sfumature sulle questioni di giustizia, accoglienza, quando parliamo di ridare dignità alle persone. A Como e ovunque bisogna invece sostenere le esperienze che sono impegnate proprio per contrastare questo clima. Il contrario della fede non è il dubbio ma la paura. Non possiamo stare dalla parte di chi usa la paura come strumento di discriminazione», conclude la pastora.

Perché “Nell’amore non c’è paura, anzi l’amore perfetto caccia via la paura” [prima lettera di Giovanni, 4:18].

Foto da Como senza frontiere