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Fototessere 5: una tensione comune alla verità

Prosegue la serie di incontri dialogati che Paolo Ricca realizza per Riforma e che ha visto finora i ritratti di Maria Paola Rimoldi, Annapaola Carbonatto, Matteo Ferrari, Fulvio Ferrario: uomini e donne che hanno dei ruoli conosciuti all’interno delle chiese evangeliche in Italia o nell’ambito ecumenico, ma anche persone che, pur non avendo incarichi conosciuti ai più, portano con sé un’esperienza di fede significativa per tutti e tutte noi.

 

Presentare Gabriella Caramore, veneziana di nascita e romana di adozione, ai lettori di Riforma può essere superfluo, dato che molti la conoscono bene soprattutto perché ha condotto su Rai RadioTre, dal 1993 al 2018, la rubrica di cultura religiosa Uomini e Profeti con due puntate settimanali – una conduzione che non esito a definire “magistrale” sia per la vastità dell’orizzonte in cui si è mossa sia per la qualità dei temi trattati e degli oratori invitati, sia infine e soprattutto per la sua capacità, davvero fuori dal comune, di intavolare dialoghi veri e profondi con diversi tipi di interlocutori, riuscendo, grazie a una sua speciale dote maieutica, a ottenere da loro il massimo di quello che potevano dare. La questione religiosa è stata affrontata nel migliore dei modi, cioè in grande libertà, serietà e rigore, senza prigioni ideologiche, o dogmatiche, o ecclesiastiche di alcun genere e con ottimi indici di ascolto. Ben ha fatto quindi la Facoltà valdese di Teologia a conferirle nel 2012 la laurea honoris causa. Ma Gabriella Caramore non è solo Uomini e Profeti. Basta dare un’occhiata al sito www.gabriellacaramore.it per rendersi conto della vastità e varietà della sua intensa produzione radiofonica e letteraria, che continua. 

 

– Lei si è laureata a Padova in Filosofia e all’inizio sì è occupata prevalentemente di Letteratura. Poi s’è manifestato un interesse per la religione, che ha orientato tutta la sua vita fino a oggi. Lei è in grado di spiegare a se stessa e a noi la nascita di questo interesse? Che cosa lo ha generato?

«Credo di aver avvertito fin da bambina, quando a otto anni leggevo La capanna dello zio Tom, che qualcosa di fondamentale per l’umano passava attraverso il fenomeno religioso. Percepivo come una forza di trazione verso il bene, che però non riscontravo nelle esperienze religiose che vedevo intorno a me, che mi lasciavano del tutto indifferente. La mia famiglia, con una laicità sostanziale anche se non militante, mi ha sicuramente assecondata in questo».

– Il Suo ultimo libro è intitolato La parola Dio, in cui documenta l’innegabile importanza di questa parola nella storia dell’umanità. Lei si sente di azzardare un’ipotesi sul rapporto tra Dio e la parola Dio?

«È un tema molto delicato, perché in tutta la tradizione d’Occidente la parola Dio presuppone l’esistenza di Qualcuno a cui si possa dare quel nome. A me sembra però che “Dio” sia semplicemente la parola con cui generazioni di esseri umani hanno voluto indicare da un lato qualcosa che sta oltre l’umano, che non è circoscrivibile alla nostra esistenza su questa terra; dall’altro la necessità di tracciare strade per realizzare giustizia, libertà, solidarietà verso i deboli e gli oppressi, perdono vicendevole. È così, mi sembra, che si possono spiegare le infinite variazioni intorno all’interpretazione di questa parola».

– Karl Barth scrive nella sua sterminata Dogmatica che «Dio possiede incontestabilmente un potere di attrazione […] proprio perché è bello…». Tante persone, anche oggi, sono state affascinate, per non dire sedotte (come già il profeta Geremia), da Dio. La “bellezza di Dio” potrebbe consistere nel suo mistero? Oppure non ha molto senso dire che “Dio è bello”?

«Ha senso solo se con quella “bellezza” si intende una dimensione anche di “bene”, che è ciò che dovrebbe orientare l’umanità. Ciò in cui non mi ritrovo è, appunto, dire che “Dio è…”, “Dio possiede…”. In questo modo si attribuisce a Dio un carattere di “oggettività” che è appunto ciò che contesto all’ipotesi “Dio”».

– Per vent’anni, con due incontri settimanali, lei ha curato la trasmissione radiofonica di Rai Radio3 Uomini e Profeti che, durante la sua gestione, ha goduto di una vasta audience che aveva questa caratteristica: era seguita e apprezzata con pari interesse sia da agnostici e atei, sia da credenti convinti e impegnati. Come si spiega questo fenomeno molto raro?

«Indicherei, sostanzialmente, tre fattori. Il primo è che gli ascoltatori si sono man mano resi conto che le religioni non sono appannaggio delle singole confessioni, o chiese, o comunità, ma intercettano lo sforzo di ogni singolo per dare dignità all’umano, a qualunque contesto culturale o di fede appartenga. Il secondo è che questo sforzo attraversa tutti i linguaggi dell’umano: non solo quello delle fedi, ma quello della scienza, della musica, della poesia, del diritto. E dunque ciascuno ci si può ritrovare. Il terzo credo consista nel fatto che chi ascoltava percepiva, attraverso dialoghi serrati, il desiderio di costruire un ragionamento, di ricercare un senso, piuttosto che l’affermazione di principi».

– Uomini e Profeti, tra tante altre cose egregie, lei ha osato fare quello che nessun altro, in Italia (ma credo anche in Europa) ha mai avuto il coraggio di fare in un mezzo di comunicazione di massa, e cioè una lettura continuata e commentata di tutta la Bibbia, ininterrottamente, per tre anni consecutivi. Che cos’è che di questa lettura a più voci l’ha colpita di più?

«Direi sostanzialmente due cose: la prima è scoprire che, diversamente da come l’avevo letta prima di questa impresa, la Bibbia non è solo una raccolta di libri diversi, o un insieme di versetti sparsi, edificanti o crudeli o moraleggianti. Ma ha una sua struttura bel solida, nella quale è sì difficile inoltrarsi, ma che rivela un intento profondo di dare senso alla vita di un popolo, di costruire un edificio comune su questa terra. E la seconda è che, attraverso l’esegesi e una pratica incessante di interpretazione, si può ricostruire l’intelaiatura storica sottesa a quell’immenso lavoro di stesura, se ne colgono le motivazioni, il radicamento in una storia, in un tempo e in un luogo che oggi dobbiamo vivere con vicinanza, ma anche con la dovuta distanza. Si capisce in che modo quel testo è divenuto una intelaiatura di valori per tutto l’Occidente. Peccato che al lavoro esegetico spesso non si faccia corrispondere nella pratica dei fedeli una modalità interpretativa altrettanto dinamica».

– Lei non aderisce a nessuna religione organizzata, però si è occupata di tutte, almeno delle maggiori. Tutte professano dei valori. Quale valore (uno solo), lei, salverebbe dell’Ebraismo? E del Cristianesimo? E dell’Islam? E del Buddhismo? (Supponendo che ciascuna ne abbia almeno uno).

«A me sembra che tutte le religioni, e tutte le espressioni più alte di una civiltà e di una cultura, abbiano un denominatore comune, che è quello di salvaguardare il bene delle creature, la capacità di bellezza, la tensione alla verità, la ricerca della dignità di ogni singolo vivente. In pratica, tutti i valori che sono proclamai nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo. Ma tutte, ahimè, inciampano nella rivendicazione identitaria, nel desiderio di sopraffazione, nell’idolatria. Non c’è una salvezza proclamata una volta per tutte. Il lavoro è incessante e non prevede tregua».

– Il messaggio biblico ed evangelico è certamente molto meglio del cristianesimo storico e dell’istituzione Chiesa. Può esistere, secondo lei, un cristianesimo senza Chiesa?

«Non saprei. Certo il cristianesimo si è espresso all’interno di grandi e piccole comunità. Bisognerebbe piuttosto che le istituzioni chiesa si chiedessero se davvero riescono a portare il peso esigente dell’esperienza cristiana. Ma forse oggi non è così rilevante sapere come si può essere cristiani. Piuttosto, provare a essere fraterni e costruttivi gli uni con gli altri».