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Willy Monteiro, saper scegliere fra giustizia e vendetta

L’America di Minneapolis, quella di George Floyd, l’abbiamo vissuta qui, nella piccola cittadina dell’area metropolitana di Roma. Non certo con le dovute proporzioni, perché un omicidio ha sempre le stesse immense, inaccettabili dimensioni. Cambiano le condizioni e i protagonisti, non cambia la sceneggiatura e il movente. 

L’odio razziale, troppo spesso lo dimentichiamo, è prima di tutto odio, puro, cieco. Un odio che cerca nell’altro la causa delle nostre paure, dei nostri fallimenti e dei problemi che affaticano ogni giorno la nostra vita. Vederlo da vicino inquina pure noi, che abbiamo l’illusione di esserne immuni.

Leggere la realtà con il filtro di quell’odio significa cavalcare un cavallo imbizzarrito che, nella sua folle corsa, non sai dove ti può portare, ma sai per certo che la corsa non finirà bene. Un cavallo su cui in molti ci invitano a salire ogni giorno, con ogni mezzo, cavalcando in direzioni opposte ma tutte verso il baratro della follia.

Così, a esempio, le pagine social degli indagati per l’omicidio di Willy Monteiro Duarte si riempiono di quello stesso odio, da parte di chi, incapace di uscire dalla spirale che tutti prende e nessuno esclude, viene trascinato in una china che rischia di accomunarci nella corsa verso l’oblio.

Succede, così, che la vittima sparisce: ci basta sapere che era un bravo ragazzo, che era perfettamente integrato (come se ci fosse una scala per la quale qualcuno merita più di altri di essere assassinato) dopodiché la nostra attenzione va tutta ai presunti carnefici, con ampi servizi sulla loro vita “sballata”, gli allenamenti alla scuola di arti marziali, le testimonianze di chi li conosceva. Tutto calcolato: le vittime, le loro storie, non fanno abbastanza “click” sulle pagine di informazione mentre l’odio, in qualsiasi declinazione venga proposto, ha sempre portato fiumi di visite online e, di conseguenza, soldi alle testate di qualsiasi orientamento politico. Quasi sempre è un morboso invito ad affacciarsi a quell’orrore, con occhi rabbiosi e assetati di vendetta, eleggendoci a giudici inconsapevoli di un tribunale fittizio e delirante.

Così passa in secondo piano, a esempio, l’appello dei genitori del giovane, in cui chiedono, appunto, giustizia e non vendetta. 

Lo chiedono soprattutto a noi che, troppo spesso, con la giustizia, abbiamo un rapporto conflittuale: che sia umana o divina, ci mette in difficoltà, perché è una strada difficile, piena di curve, in salita, a volte discutibile. Molto più facile percorrere quella della vendetta, lineare e in discesa.

A noi che etichettiamo con pericolosa superficialità un paese come culla del razzismo, del degrado, come spiega molto bene il pastore della chiesa valdese di Colleferro, Massimo Aquilante, in questo articolo.

Rimuovere questo filtro è oggi urgente e imprescindibile dalla vita di un credente, in primo luogo, ma anche di chi crede in una società in cui l’odio venga finalmente abolito, in tutte le sue declinazioni. Ce lo chiedono, quasi sempre, le vittime stesse.