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L’importanza di essere deputati

Tra meno di due settimane saremo chiamati a esprimerci sulle modifiche alla Costituzione che riducono di circa un terzo il numero dei parlamentari, deputati e senatori, approvate a larga maggioranza meno di un anno fa al quarto passaggio parlamentare di un iter iniziato nel febbraio 2019. Dai sondaggi sembra scontato l’esito del voto che dovrebbe, seppur con numeri inferiori a quelli dei sondaggi die due mesi fa, premiare il Sì, cioè l’approvazione del taglio del numero dei parlamentari, con una maggioranza intorno al 70 % dei voti.

La temperie in cui avviene la consultazione non è certo tale da favorire l’approfondimento della questione, la riflessione sui suoi presupposti e le sue implicazioni, né il confronto tra le ragioni degli uni e degli altri. Il perdurare dei rischi della pandemia; una crisi economica spaventosa; l’incertezza su programmi che vadano al di là delle mere reazioni emergenziali; il discorso politico continuamente incentrato sulla propaganda; la coincidenza della scadenza referendaria e quindi l’uso di locali scolastici in concomitanza con l’incerto riavvio delle attività di didattiche… molte preoccupazioni sembrano soverchiare il quesito referendario. Vedremo quale sarà l’affluenza alle urne, per un quesito che non richiede quorum.

Al di là della scadenza imminente, vale la pena di riflettere sulla temperie culturale e politica in cui avviene la discussione sul “taglio”, per qualcuno una vera bandiera. 

L’esigenza di ridurre il numero dei parlamentari non mi pare collegata a una organica visione di riforma, ma è dai suoi promotori spesso sostenuta con l’argomento che bisogna “tagliare le poltrone”. Una riforma politica motivata dagli umori dell’antipolitica? Se si presuppone e si sostiene – paradossalmente anche da parte di chi quei seggi occupa per il mandato che ha ricevuto venendo eletto – che i seggi parlamentari sono “poltrone” e che quindi la politica non è una di per sé nobile professione, necessaria per una democrazia costituzionale rappresentativa, si svilisce uno degli elementi fondamentali dei nostri sistemi parlamentari democratici occidentali. E questo in un momento in cui qui da noi sempre più spesso il ruolo del Parlamento è ridotto a votare su decreti governativi, magari con un voto di fiducia, e in cui, in altri contesti europei, si cerca il consenso intorno all’insofferenza per il Parlamento e le sue dinamiche, considerati un fastidioso ostacolo all’azione di governo.

Non che il numero dei parlamentari sia di per sé indiscutibile; il problema è a mio avviso sulla base di quali visioni e parole d’ordine se ne discute e, soprattutto, a partire da quale concezione del sistema parlamentare, della rappresentanza dei cittadini in termini di deputazione.

Il referendum passerà e tutto il resto continuerà: chiacchiericcio, propaganda e incompetenza continueranno ad agitarsi di fronte ai drammatici problemi che incombono su di noi e che speriamo non ci esplodano fra le mani. La vera risposta al vociare e agli strepiti di oggi si giocherà sul piano della cultura, cioè in termini di ricostruzione della politica e di elevamento dei discorsi che la accompagnano; questo sarà un lungo e faticoso processo, dagli esiti oggi incerti. 

Su questo piano culturale, alcuni aspetti ci investono direttamente anche come membri della Chiesa valdese – Unione delle chiese metodiste e valdesi.

La nostra storia e la nostra ecclesiologia ci possono insegnare qualcosa. La nostra gerarchia di assemblee, culminante nel Sinodo, non è la stessa cosa di una democrazia costituzionale moderna, ma con essa ha in comune un sistema parlamentare. Dovremmo saper spiegare in maniera alta che cosa significa essere deputati – senza vincolo di mandato, per noi se non quello dell’ascolto della Parola di Dio – e non delegati. Dovremmo saper spiegare che cosa produce il confronto assembleare in vista della determinazione di orientamenti che non sono il risultato del semplice conto dei voti corrispondenti alle posizioni di partenza. Dovremmo saper spiegare che cosa producono di positivo il lavoro in commissioni e il dibattito in aula. Dovremmo saper illustrare come la discussione e l’interlocuzione tra fronti opposti può far emergere punti di convergenza in vista del governo delle situazioni. Dovremmo sapere quanto sia importante il controllo esercitato sui mandati ricevuti. Dovremmo sapere quante energie e quanti passaggi richiedono la selezione e la formazione dei quadri, di quella che in politica si chiamerebbe la “classe dirigente”. Potremmo, a partire dalla nostra esperienza, riflettere anche su “i costi della politica” a partire dall’incidenza economica delle nostre Assemblee di circuito, Conferenze distrettuali e Sinodo annuale.

Non voglio dire con questo che non si debba cambiare, ma la spinta al cambiamento deve venire dall’esigenza di migliorare un sistema irrinunciabile e non dalla convinzione che si tratti di tagliare poltrone – arredo da salotto… – e sapendo che le strutture rappresentative e decisionali hanno dei costi che non sono uno spreco, ma il prezzo di qualcosa che, anche con opportune modifiche, si ritiene però indispensabile per essere quello che si vuole essere. La politica ha un costo, e se sono soldi ben spesi dipende da chi gli elettori mandano sui seggi del Parlamento.