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Finalmente libera?

Ci siamo occupati più volte su “Riforma”, negli ultimi anni, del caso di Aasia Noreen, nota in tutto il mondo come Asia Bibi. Questa donna cristiana pakistana era stata condannata a morte nel 2010 con una pretestuosa accusa di blasfemia e finalmente assolta il 31 ottobre 2018, dopo nove anni di detenzione e di processi, rallentati anche dalle minacce ricevute dai giudici da parte di gruppi fondamentalisti.

Il caso sembrava chiuso con l’atteso ricongiungimento familiare in Canada, poco più di un anno fa, ma un nuovo capitolo si apre in questi giorni in seguito a una serie di dichiarazioni della donna, che hanno fatto decisamente scalpore.

Innanzitutto, la netta presa di distanze da Enfin libre!”, biografia scritta insieme alla giornalista di CNews Anne-Isabelle Tollet, che aveva fortemente contribuito alla copertura mediatica del suo caso già con un precedente libro del 2011 (Blasfemia”), mantenendo viva l’attenzione della comunità internazionale su un processo che avrebbe potuto concludersi anni fa, con un esito ben diverso.

Ricordiamo tra l’altro che due politici erano stati assassinati per aver preso pubblicamente le sue parti, il governatore del Punjab, Salman Taseer, e il ministro federale per le minoranze, Shahbaz Bhatti e anche il suo avvocato, il musulmano Saif ul-Malook, ripetutamente minacciato, ha dovuto chiudere il suo studio e vive sotto scorta.

L’edizione americana del libro, Free at last!”, è uscita il 1° settembre e in un’intervista a “Voice of America urdu” la donna nega di aver partecipato alla scrittura del libro, e che esso sia la sua biografia. Addirittura dice di «non sapere quando lo abbia scritto e chi l’abbia guidata nello scriverlo. Non condivido assolutamente quello che c’è scritto, perché non è la mia autobiografia». Tuttavia, quando in febbraio il libro era uscito in Francia, Asia Bibi aveva partecipato alla sua promozione, incontrando il presidente Macron e ricevendo la cittadinanza d’onore a Parigi.

La donna non si limita a disconoscere la biografia, ma addirittura prende le difese della “legge antiblasfemia” che l’ha quasi portata alla morte, dichiarando che «in termini assoluti è una buona legge, ma la gente ne abusa». La responsabilità viene data all’«incidente al villaggio, quando la gente stava per uccidermi senza ragione», e non alla legge che «non mi ha messo un cappio al collo. [Tollet] ha incolpato la legge ma io non accetto nulla contro la legge o contro il mio paese», ha affermato.

Il tema della blasfemia è certo molto delicato in questo paese, che ha una delle normative più drastiche in materia, e dove anche un’accusa non comprovata (come nel caso di Asia Bibi) può condurre alla morte. Molte organizzazioni per i diritti umani denunciano l’uso strumentale di questa legge, per risolvere questioni personali (ancora una volta, come nel caso di Asia Bibi, presa di mira da alcune colleghe di lavoro) che nulla hanno a che vedere con la religione.

La notizia è stata commentata, tra gli altri, dal quotidiano cattolico “La Croix” e dal settimanale protestante “Réforme”, che concordano nel dire che le conseguenze psicologiche della vicenda possono avere giocato un ruolo in questo brusco “cambio di rotta”. In particolare, le modalità con cui si è svolta l’uscita di Asia Bibi dal Pakistan, avvolta nel riserbo per non rivelare la destinazione e per non scatenare le reazioni violente dei fondamentalisti, resa possibile a condizione di non farvi mai più ritorno. Eppure, in più di un incontro la donna aveva confidato il sogno di tornare nel suo paese, e le recenti affermazioni a favore della legge pakistana sono sembrate un tentativo di ricomporre una separazione troppo dolorosa, e magari aprire uno spiraglio con le autorità.

Foto: una manifestazione per la liberazione di Asia Bibi in Spagna nel 2010 (Wikimedia Commons)