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Fototessere 4: preso dalla fissazione di Gesù

Prosegue la rubrica di interviste del professor Paolo Ricca.

I lettori di Riforma conoscono Fulvio Ferrario per i suoi frequenti interventi su questo giornale, mentre i membri delle nostre chiese lo conoscono soprattutto come professore della Facoltà valdese di Teologia e autore di molti libri. Ma non tutti sanno che prima di studiare, e poi insegnare, teologia protestante ed essere ben conosciuto negli ambienti accademici ed ecumenici italiani, ma anche fuori d’Italia, si è laureato in Filosofia alla Cattolica di Milano con una tesi su Hans Küng nel 1980, a soli 22 anni (è nato a Milano nel 1958).

 

Confermato nella chiesa valdese di Milano nel 1983, si è poi laureato nella Facoltà valdese, ed è stato consacrato pastore nel 1989. Ha esercitato il ministero pastorale nelle chiese di Alessandria e Bassignana (1989-1997) e in quella di Milano (1997-2002) Nel 1997 ha conse- guito il dottorato di ricerca presso l’Università di Zurigo con una tesi sull’ermeneutica di Zwingli (relatore Fritz Büsser). Dal 2002 insegna teologia sistematica presso la Facoltà di teologia, di cui, dal 2014, è decano.

Ernst Bloch, nel suo Ateismo nel cristianesimo, scrive: «Il meglio della religione è che essa suscita eretici». Come commenterebbe lei questa frase?

«Detta così, non mi trova d’accordo. La mia speranza è che il meglio della mia “religione” sia che dica la verità su Dio e sull’universo. In essa ho poi trovato “ortodossi” ed “eretici” che mi hanno testimoniato Gesù; e altri “ortodossi” ed “eretici” che avrei preferito non conoscere».

Gli antichi dicevano che la filosofia è la medicina dell’anima e che la virtù è la misura della vita. Perché nella nostra Facoltà – per i ricordi che ne ho – si parla così poco (per non dire mai) di virtù e si dà per conosciuta la filosofia invece di continuare a insegnarla come sorella della teologia?

«Per quanto riguarda la virtù, credo che quanto lei afferma abbia a che vedere (certo: per via indiretta) con la critica della Riforma all’etica aristotelica, recepita in forma semplificata e anche un po’ semplicista. Per quanto riguarda la filosofia (che oggi, nella nostra Facoltà, è offerta a tutti anche se non per tutti obbligatoria) mi permetto di rispondere in modo banale, ma realistico: non è materialmente possibile rendere obbligatori tutti gli insegnamenti che, di per sé, sarebbero necessari o almeno assai utili».

C’è chi sostiene che nell’affrontare le cosiddette “grandi questioni” (chi siamo? Dove va la storia umana? Da dove vengono la vita e il cosmo? ecc.), le domande sono più importanti delle risposte. Ma la fede non vuole essere proprio questo: una risposta alle domande? Lo è davvero?

«Personalmente, non sono un fautore del “domandismo”: lo trovo, se mi posso permettere, vagamente salottiero. Credo che se una domanda è seria, chieda una risposta. Credo anche che le risposte umane alle “grandi domande” siano sempre parziali e provvisorie. La fede (o più precisamente: Gesù) è certamente una risposta, ma al tempo stesso un’ulteriore interrogazione. Non si tratta di un circolo vizioso, bensì di un cammino. Dire che l’ultima risposta è Dio stesso non è un luogo comune (per lo meno: non necessariamente): è quel che pensa la Bibbia».

Prima di diventare valdese, cioè protestante, lei è stato cattolico roma-no. Come descriverebbe, oggi, questa transizione dalla fede cristiana che viveva nella Chiesa cattolica al modo attuale di viverla? Qual è, in poche parole, la differenza?

«Benché oggi ami il cattolicesimo romano più di quanto lo amassi da cattolico (secondo me perché è più “bello” visto da fuori che da dentro!) la penso come allora: la differenza è nel modo di comprendere la chiesa. Non si tratta solo della dottrina, bensì di una trasfigurazione della chiesa, un po’ mistica, un po’ metafisica, che alla fine si traduce nella legittimazione sacrale di un sistema di potere non privo di tratti inquietanti. Non “solo” dell’assolutismo papale: la faccenda è pervasiva. Un amico, teologo morale, mi diceva una volta: evito l’etica sessuale, perché se ne parlassi non sarei più cattolico. Beh, questa non è la verità che, secondo il Gesù giovanneo, vi “farà liberi”».

Lei – per quel che ne so – è molto impegnato nel movimento ecumenico. Ha un’idea di come potrebbe configurarsi una futura unità cristiana?

«Credo in una comunione nella preghiera, occasionalmente nell’eucaristia, nella testimonianza, per quanto mi riguarda nel lavoro teologico, con persone e gruppi di chiese diverse. Questo è già realtà: anche l’ospitalità eucaristica, in barba ai gerarchi romani (per non parlare di quelli ortodossi). Quanto a un’unità istituzionalmente strutturata, non la credo possibile nel medio periodo e nemmeno la desidero più. Se ci fosse, infatti, sarebbe sulla base dell’ecclesiologia cattolica, come indicano i documenti di consenso. E io mi ritroverei al punto dal quale sono partito. È una prospettiva deprimente; suppongo però di transitare nella chiesa trionfante prima che essa si realizzi ed è una delle non molte ragioni che mi fanno apprezzare la vecchiaia».

Il futuro dell’umanità non potrà non essere interreligioso. Ricordo che Paul Ricoeur, ospite della Facoltà valdese, mi disse in una conversazione privata assolutamente informale: «Io dall’Islam non imparo nulla». Secondo lei, dall’Islam, c’è qualcosa, o molto, da imparare?

«Mi rendo conto dell’estrema povertà spirituale che la mia risposta denuncia, ma posso solo dire: ne so troppo poco per imparare qualcosa di decisivo. È come se tutte le mie energie spirituali (ammesso che ne abbia) siano concentrate nel tentativo di comprendere Gesù, con l’aiuto della tradizione protestante e di quella cattolica (anche dell’Oriente cristiano, ho sempre capito poco). Mi consolo ripetendomi una grande banalità, che però è anche vera: la vita è troppo corta per capire tutto».

Lei è diventato cristiano nella Chiesa cattolica. Potrebbe dirci in che modo questo è accaduto? Oppure ritiene che, come non possiamo raccontare la nostra nascita, così non possiamo raccontare la nascita della nostra fede?

«Fino ai sedici anni essere cristiano significava per me adottare le convinzioni “esistenziali” dei miei genitori ed essere politicamente conservatore, come i miei genitori (che pure erano semplici impiegati). Poi, abbastanza improvvisamente, ho compreso che la fede o è centrale nella vita di una persona, oppure non ha alcun senso. Da quel giorno sono stato preso dalla “fissazione” di Gesù, cioè da una sorta di “necessità” (per una volta, direi che la citazione di Paolo non è fuori luogo: è proprio una difficoltà a fare “altrimenti”) di vivere la vita (anche, forse soprattutto, i suoi fallimenti, le meschinità, lo squallore di una quotidianità egoista e pigra ecc.) in rapporto alla parola del Signore. Non saprei nemmeno dire bene in quale rapporto. Comunque, non senza di lui».

Lei ha scritto molti libri. Qual è quello che le piace di più, o nel quale più si riconosce – e perché?

«So che è una risposta convenzionale, ma è quello che penso: mi piacerebbe che il libro scritto da me e da me preferito debba essere ancora scritto».