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Concluse le regolarizzazioni: quale bilancio?

Lo scorso 17 agosto si è conclusa la procedura per la regolarizzazione dei rapporti di lavoro in tre settori: agricoltura, lavoro domestico e assistenza alla persona.

Dal giorno dell’apertura, lo scorso 1 giugno, sono state presentate oltre 207.000 domande, un numero non distante da quello previsto nella relazione tecnica del Decreto Rilancio, che ipotizzava 220.000 istanze.

Nelle intenzioni della norma, i datori di lavoro potevano presentare domanda di regolarizzazione per concludere un contratto di lavoro subordinato con cittadini stranieri presenti sul territorio nazionale oppure per sanare un rapporto di lavoro irregolare con cittadini italiani o stranieri già presenti in Italia prima del marzo 2020. Inoltre, anche i cittadini stranieri con permesso di soggiorno scaduto dal 31 ottobre 2019, non rinnovato o convertito in altro titolo di soggiorno, potevano richiedere un permesso di soggiorno temporaneo, valido solo nel territorio nazionale, della durata di sei mesi. Un’iniziativa di legge proposta dalla ministra dell’Agricoltura, Teresa Bellanova, che aveva trovato la netta contrarietà dell’opposizione, secondo cui il provvedimento avrebbe favorito lo schiavismo e la criminalità, contrariamente a quanto sostenuto dagli studiosi del fenomeno migratorio.

Nel momento dell’annuncio e all’inizio della procedura l’attenzione era stata rivolta soprattutto al settore agricolo, considerato quello in cui da anni sono attuati sistemi di sfruttamento sistematico dei lavoratori e delle persone, ridotte in uno stato di sostanziale schiavitù, ma i dati dicono che la grande prevalenza di istanze è arrivata da colf e badanti (85%).

È interessante riflettere sul momento storico in cui si è arrivati a questa regolarizzazione: in Italia i processi migratori sono ancora basati sulla cosiddetta Legge Bossi-Fini del 2002, che aveva legato in modo ancora più rigido il permesso di soggiorno e il contratto di lavoro. Inoltre, la politica italiana negli ultimi anni ha sempre spinto politiche di deterrenza e repressione delle migrazioni. Eppure, la crisi sanitaria e il lockdown hanno creato una condizione unica nel mercato del lavoro, quella in cui il rapporto tra domanda e offerta si è invertito, con una scarsa domanda di lavoro agricolo a fronte di un’offerta rimasta praticamente stabile. «Questo è vero solo per alcuni settori – chiarisce il sociologo Maurizio Ambrosini, esperto di dinamiche migratorie – ed è durato poco».

Possiamo dire che la regolarizzazione ha funzionato?

«Molti parlano di un flop ma io non sono d’accordo. Una norma che ha consentito di regolarizzare probabilmente 207.000 persone, almeno queste sono le domande che sono state presentate, è una cosa straordinaria che non si è vista in nessun Paese avanzato durante questa pandemia e nemmeno negli ultimi anni. Teniamo conto che il Parlamento attuale è un Parlamento che nella sua grande maggioranza è ostile agli immigrati. Avere strappato una misura come quella della sanatoria è un risultato impensabile. Però ha funzionato solo in parte. L’agricoltura è l’esempio, perché la sanatoria è partita con il problema delle imprese che non trovavano i lavoratori, avevano paura di non avere sufficiente disponibilità di “braccia” per le campagne di raccolta ma, prima ancora che uscisse a maggio il decreto, le organizzazioni agricole avevano già preso le distanze dicendo che in fondo questa sanatoria non avrebbe risolto i problemi, non sarebbero arrivati in tempo i lavoratori e che ci sarebbe stato bisogno di altro. Si era parlato di altre misure, come i “corridoi verdi”, che comunque poi non si sono attuate. Temo che abbiano risolto il loro problema di approvvigionamento di manodopera in maniere meno civili di quella configurata dalla sanatoria.

Più in generale, c’è stato un oblio dei lavoratori essenziali che pure erano stati molto elogiati durante la fase del lockdown. Penso per esempio ai fattorini che portavano il cibo a domicilio, molti di loro immigrati: chi ne parla più? Alcuni hanno perso il lavoro, hanno anche timidamente protestato ma la loro voce è rimasta inascoltata. Purtroppo mi pare che questa fase di “prevalenza dell’offerta”, per così dire, sia stata breve e subito si sia chiusa con la fine del lockdown».

Le condizioni del mercato del lavoro potrebbero essere un volano importante per rivedere in modo più ampio il sistema dell’immigrazione italiano?

«Il problema delle politiche migratorie è complesso, perché intanto gli immigrati sono di tipi diversi. Potrei dire che gli immigrati dell’Unione europea, i romeni per esempio, hanno diritti molto vicini a quelli degli italiani. Questo è vero almeno in teoria, poi l’applicazione dei diritti e le norme locali, anche in quel caso tendono a limitare la fruizione dei diritti. Un caso emblematico è il diritto di voto locale che i romeni hanno ma che nessuno si occupa di fargli fruire effettivamente. Dovremmo sempre dire di “quali” immigrati stiamo parlando quando facciamo le nostre discussioni. Ci sono categorie di immigrati che non sono particolarmente toccate dalle norme repressive, alcuni hanno addirittura migliorato la loro situazione, come i lungo soggiornanti, mentre credo che un vero problema sia quello dei nuovi ingressi per motivi di lavoro. Questi sono condizionati da decreti flussi annuali che applicano delle quote molto ristrette, circa 30.000 all’anno di cui 18.000 per lavoro stagionale, quest’anno neanche quelli. Lì si crea un collo di bottiglia, che significa poi utilizzo del canale dell’asilo come unica porta d’ingresso, significa ingressi e soggiorno irregolare, significa anche carenza di manodopera in alcuni settori dove sarebbe necessaria. Ci sono alcune norme che andrebbero riviste, per esempio quelle relative a un accesso più facile e rapido all’istituto della cittadinanza italiana».

A questo proposito, durante la scorsa legislatura era stato avviato un percorso verso una riforma della legge sulla cittadinanza, interrotto dopo le elezioni politiche del 2018. Da allora non si è ripreso il percorso. Perché?

«Sulla cittadinanza la sensibilità, la cultura politica, la percezione del consenso da parte della maggioranza parlamentare è decisamente ostile a ogni apertura in questa direzione. Non dimentichiamo che il governo attuale non è ancora riuscito a modificare i decreti sicurezza, altro punto assai dolente delle attuali politiche migratorie. Perché non c’è accordo tra le forze al governo e probabilmente non c’è una maggioranza parlamentare sufficientemente coesa per arrivare ad abrogare almeno le norme più incivili di quei pacchetti.

Tuttavia, le naturalizzazione già avvengono. Qui non si tratta di passare dal nero al bianco, come fu per esempio per le unioni civili. Negli ultimi tre anni sono state naturalizzate circa 450.000 persone in Italia con le norme esistenti. Quindi il vero dibattito è se occorre far aspettare alle persone immigrate extracomunitarie dieci anni di soggiorno ininterrotto più quattro di valutazione della domanda per arrivare infine a concedere la naturalizzazione o passare dei tempi più ragionevoli e più in linea con le medie dell’Unione europea.

Persino lo ius soli, che è stato usato come totem polemico, in realtà c’è già. Il problema è che attualmente scatta al diciottesimo anno di età dopo 18 anni dalla nascita in Italia e di soggiorno ininterrotto in questo Paese. Credo che sia uno di quei casi in cui la carica polemica e il fuoco di sbarramento propagandistico hanno trasformato problemi in realtà banali e di scarsa consistenza in drammi epocali. D’altronde, siamo un paese in cui la maggioranza degli italiani è convinta che ci sia un’invasione degli immigrati, che gli immigrati siano maschi africani che provengono dal Medio Oriente e che siano arrivati numeri eccezionali e tutto questo non è vero. L’immigrazione in Italia è stazionaria, è prevalentemente femminile, europea e viene da paesi di tradizione culturale cristiana».

 

Foto per gentile concessione Fondazione Giannino Bassetti