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Camerun, l’appello della Chiesa presbiteriana per la pace

La Chiesa è «parte della soluzione per portare pace e riconciliazione in questo conflitto», in un paese «un tempo ammirato come nazione di pace nel continente», che oggi sta «vivendo la peggiore crisi della sua storia». Ne è convinto il pastore Miki Hans Abia, decimo segretario sinodale della Chiesa presbiteriana del Camerun (Pcc) eletto nel 2019.

La denominazione, che comprende 1 milione e mezzo di fedeli, più di 500 pastori e oltre 1500 congregazioni nel paese (ma è presente anche in Belgio, Finlandia, Germania, Danimarca, Svezia, Usa e Sudafrica), è stata duramente colpita, ma continua ad adoperarsi per la costruzione della pace in un paese diviso.

Colonia tedesca tra la fine del XIX secolo e la prima guerra mondiale, durante questo conflitto fu infatti occupata dagli inglesi e dai francesi (questi ultimi, tra l’altro, su mandato della Società delle nazioni) e da allora, nonostante l’unificazione nel 1961 in un unico paese, ha dovuto convivere con questa divisione linguistica, a cui si aggiunge la complessità religiosa (circa il 70% della popolazione è cristiano, il 24% musulmano). Negli ultimi anni, poi, il paese ha dovuto affrontare i conflitti derivati dalla presenza del gruppo terroristico Boko Haram con le sue incursioni violente nel nord del Paese.

Abia vive nel sudovest del Paese, dove si trova la maggior parte della minoranza anglofona, e parla della «crisi anglofona» (che riguarda direttamente la sua chiesa, per lo più anglofona e all’80% situata nella “zona di guerra”) e in particolare del «violento conflitto armato tra la milizia anglofona (Amba Boys) e le forze armate e di sicurezza nazionali». 

«La devastazione è enorme, ci sono centinaia di migliaia di sfollati interni – dice, – migliaia sono rifugiati nei paesi vicini, molti sono brutalmente uccisi o vivono in condizioni deplorevoli, villaggi interi vengono bruciati e distrutti, persone vengono rapite dietro richiesta di enormi riscatti».

Si calcola che più di un milione e mezzo di persone siano state costrette a lasciare le loro case a causa della crescente violenza e insicurezza nel paese, che si somma dal 2014 alle guerre civili e violenze nei paesi limitrofi, con la relativa necessità di accogliere i profughi. Ultimo, ma non ultimo, lo scoppio dell’epidemia di Covid-19 e il collegato conflitto nella regione del Sahel.

Quello che la Chiesa presbiteriana sta facendo, spiega il responsabile del settore educativo della Pcc, Njie Samuel Kale, è di offrire agli studenti dei luoghi sicuri dove andare a scuola, materiali per lo studio, ma anche sostegno alla salute, sia per le popolazioni locali, sia per gli sfollati.

Pe quanto riguarda il processo di pace, invece, spiega ancora il pastore Abia, il suo ruolo è stato organizzare, insieme ad altri, «incontri interreligiosi invitando anche partner internazionali, discussioni da cui sono scaturite delle risoluzioni poi inoltrate al governo del paese», ma anche inoltrando alle comunità raccomandazioni e proposte per iniziative di pace e riconciliazione.

Il rapporto con le istituzioni governative ha comportato anche, nel 2019, la comune organizzazione di un “Grande dibattito nazionale” sul tema della pace, vista come (dice ancora Abia) «prerequisito per la ricostruzione, una ricostruzione che deve partire prima dalle menti che dalle cose materiali».

Infine la Pcc, i cui vertici hanno preso parte a diversi incontri convocati dal governo insieme a ministri e al capo di Stato, ha sottoposto al presidente Paul Biya una lista di proposte e richieste, tra cui «lo svolgimento di un dialogo nazionale inclusivo, il rilascio delle persone detenute in conseguenza ai disordini, un sistema governativo decentralizzato e la conservazione del sistema di istruzione anglosassone, che è stato “adulterato”, […] il cessate il fuoco, il ritiro dell’esercito dalle strade e la tutela del sistema giudiziario sul modello inglese (common law)».

 

Fonte: Cec