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Ambiente, una sfida per le chiese

A pochi giorni dall’avvio del mese del “Tempo del Creato” (dal primo settembre al 4 ottobre preghiere, riflessioni, azioni delle chiese per l’ambiente) e a poche ora dall’incontro di questa sera a Torre Pellice dedicato proprio alla tutela del pianeta Terra, ecco di seguito le riflessioni del pastore Jens Hansen sul rapporto fra chiese e tutela del nostro pianeta

Una delle immagini “positive” del periodo del lockdown che più mi è rimasta impressa è quella dei canali di Venezia la cui acqua è diventata limpida come non era da tempi immemorabili. Vedendo poi degli animali che ripopolavano il loro habitat, la natura che si riprendeva, mi chiedo quanto sbagliato sia il nostro sistema economico e il nostro modo di vivere, se solo un lockdown può fare con il Creato ciò che dovremmo fare ogni giorno: curarlo e custodirlo. È ovvio che qualcosa deve cambiare e i profeti moderni non mancano, in primis la giovane svedese Greta Thunberg che da due anni fa il suo “sciopero” per il clima e ha raccolto attorno a sé milioni di giovani di tutto il mondo. Inoltre, Greta è sostenuta dalla quasi totalità degli scienziati. Ci sono intellettuali come Bruno Latour, nel suo libro La sfida di Gaia, che cercano di sviluppare pensieri profondi, affinché possano veramente essere avviati dei cambiamenti.

Noi chiese a che punto siamo? Qualche hanno fa sulla rivista ecologica tedesca Zeozwei i giornalisti hanno cercato di dare una risposta. Nella seconda edizione del 2017 affermavano in prima pagina «le chiese contro il clima» e si domandavano «che cosa fanno le chiese davvero contro il cambiamento climatico?». I giornalisti evidenziavano le dichiarazioni ufficiali delle chiese per il clima, i documenti ecumenici, l’istituzione del «Tempo del creato». Veniva visto in modo positivo anche l’impegno concreto di alcune chiese come quello che chiamiamo “gallo verde”. Il grande problema che si ponevano i giornalisti era: di fronte a dei documenti importanti, a delle buone iniziative e a tante predicazioni, il popolo delle chiese rimane indifferente, il messaggio o non arriva o non viene percepito come messaggio di conversione ecologica necessaria. Ed ecco, siamo al punto cruciale che secondo me si concentra nella domanda: perché ancora oggi a oltre 30 anni dopo l’Assemblea ecumenica europea di Basilea 1989 e il processo conciliare per la pace, la giustizia e la salvaguardia del Creato, la salvaguardia stessa non è entrata nella mente e nel cuore della maggioranza dei e delle credenti?

Per rispondere, vi parlo della mia storia. Personalmente entro in contatto con idee “verdi” alla fine degli anni ‘70. Me lo ricorda un adesivo del 1979 che vedo ogni volta che apro la valigetta della mia tromba: «Ich bin Energiesparer», io risparmio energia. È la mia prima presa di coscienza su questioni di ambiente. I colori dell’adesivo e una piccola scritta fanno vedere che la campagna è del governo, lanciata sì, in seguito al primo choc petrolifero della metà degli anni Settanta, ma anche sulla scia di una nascente coscienza ecologica che si fa strada proprio in quei anni soprattutto attorno ai cantieri delle centrali nucleari della mia Regione di origine, dove il popolo verde blocca le strade e i cantieri. 

Nella chiesa la questione ambientale arriva solo lentamente. Guardando i programmi tradizionali per il catechismo, essa ha un piccolissimo spazio nella parte del catechismo che affronta il credo apostolico, là dove si confessa il Dio creatore, spazio che solo negli anni si sposta dal tema di fiducia: «il mondo è nelle mani di Dio – He’s got the whole world in his hands» (così nel catechismo che ho seguito io negli anni 1976-1978) alle questioni ambientali, rimanendo però, almeno per ciò che riguarda il catechismo tradizionale, un tema di nicchia. Negli anni poco è cambiato. Nonostante la fede nel Dio Creatore potesse avere un grande impatto per spingerci verso una fede e una vita in armonia con il Creato e farci fare dei passi concreti per ridurre il nostro impatto diventando così agenti di conversione ecologica, ecco, non succede. La questione rimane di nicchia. Come uscirne? Per me è centrale il doppio comandamento dell’amore di Gesù, anzi dal triplo: amare Dio, il prossimo e se stessa/stesso.

Tutto parte dall’amore di Dio per il mondo: Dio, almeno in teoria, poteva benissimo bastare a se stesso e rimanere solo, rinunciare quindi alla creazione, ma non lo ha fatto. Dio nella sua essenza di amore – e l’amore è la molla che fa scattare la voglia di relazione –, crea per relazionarsi, crea il mondo, l’universo, la natura e anche noi esseri umani.

Ciò non porta Dio a ritirarsi, Egli intensifica la sua voglia di relazione mandando i profeti e alla fine suo Figlio, colui che è il segno visibile e tangibile di un Dio che cerca la relazione, proprio la relazione che ci rende capaci di relazionarci in modo sano con gli altri e con il mondo. Il teologo Eduard Schweitzer (1913-2006) per questo parla di Cristo come Ermöglichungsgrund, cioè come colui che rende possibile una relazionalità nuova.

Se vivo nel triangolo d’amore e lo mantengo in equilibrio, allora è difficile continuare a distruggere la base vitale di tutte e tutti noi e delle future generazioni, è difficile sfruttare l’altro o l’altra, anzi diventa impossibile perché fuori dall’amore. La relazionalità può rendere centrale la salvaguardia del Creato cambiando così il mondo, in cui non si devasta più il pianeta e non si schiacciano più i deboli.