640px-malian_soldiers_in_bamako_during_2012_coup

Un orizzonte incerto per il Mali

Il colpo di Stato avvenuto in Mali tra martedì 18 e mercoledì 19 agosto ha portato in poche ore al rovesciamento del presidente, Ibrahim Boubacar Keita, e del governo guidato dal primo ministro Boubou Cissé.

Keta, che guidava il Paese dal 2013 a seguito di un altro golpe, piuttosto simile a questo, si è dimesso e ha sciolto il Parlamento, affermando che «certe parti dell’esercito» avevano deciso di intervenire contro di lui, e che la sua scelta è stata quella di non resistere per evitare «spargimenti di sangue». Alcune ore dopo le dimissioni forzate di Keita, alcuni militari hanno annunciato di voler favorire una transizione politica e di volere delle nuove elezioni in un «ragionevole lasso di tempo».

Dal punto di vista informativo, questo colpo di Stato è un fulmine a ciel sereno. Eppure non è proprio così se si guarda a questi anni in Mali. Andrea De Georgio, giornalista che collabora con Internazionale e che ha vissuto e lavorato in Mali dal 2012, racconta che «questa rottura è figlia del clima di instabilità politica che va avanti in Mali almeno dal 2012, anno in cui a marzo c’era stato un golpe molto simile a quello che c’è stato martedì a Bamako. Tutti questi colpi di Stato sembrano seguire lo stesso copione da luogo comune di golpe in salsa africana, ma purtroppo in Africa Occidentale, e in un Paese come il Mali, la destabilizzazione e la delegittimazione del potere centrale sono una costante».

Come siamo arrivati a questo punto?

«Un gruppo di ufficiali ha cavalcato l’onda di malcontento che stava crescendo dal 5 giugno, il giorno in cui c’è stata la prima grande manifestazione contro il presidente Keita, per via di uno scandalo legato alle ultime elezioni legislative di marzo e aprile. In quel caso più di 20.000 persone, soprattutto giovani, erano scese in piazza, anche contro il divieto di assembramento legato all’epidemia di Covid-19, e sono andati avanti a chiedere le dimissioni del presidente. Non è bastata la dissoluzione della corte costituzionale incriminata, perché c’è stato un ultimo passo falso del presidente proprio tra lunedì e martedì che è stato il licenziamento della guardia presidenziale e un altro importante ufficiale del campo di Kati. Queste sono state le gocce che hanno fatto traboccare il vaso».

Quindi chi sostiene il colpo di Stato?«A parte il gruppo di ufficiali e militari che hanno preso la testa di questo golpe, la base è stata la popolazione di Bamako che si è unita ai manifestanti del movimento M5 (Mouvement du 5 Juin – Rassemblement des Forces Patriotiques). È molto eterogeneo, si è formato a giugno da giovani ma anche da leader religiosi, imam anche radicali, legati a una lettura dell’islam abbastanza radicale, quindi contiene tante anime di un movimento e di un malcontento che si è scagliato contro il nepotismo e la corruzione dilagante del potere esecutivo. Quello di Keita è un potere che, nonostante due elezioni democratiche avvenute nel 2013 e nel 2018, purtroppo non è riuscito a garantire futuro e speranza a un Paese che vive in una situazione di guerra asimmetrica da anni, contro forze legate ad al-Qaeda, al gruppo Stato Islamico, in cui si vivono enormi conflitti interetnici e dove nel solo 2019 sono state più di 4.000 le vittime civili».

Nel conflitto scoppiato nel 2012 si distinguevano due identità principali: quella tuareg, espressa dal MNLA, il Movimento Nazionale per la Liberazione dell’Azawad, e quella jihadista, con al-Qaida nel Maghreb islamico. Che cosa rimane oggi di quei movimenti?

«L’ultimo movimento indipendentista touareg si è ufficialmente dissolto e riorganizzato secondo diverse altre sigle, soprattutto la piattaforma di gruppi firmatari degli accordi di pace firmati ad Algeri nel giugno del 2015, che tutt’oggi rimangono carta straccia, nonostante l’impegno e la presenza e lo spiegamento di oltre 13.000 caschi blu della missione delle Nazioni Unite. Ciò che rimane dell’indipendentismo touareg è ormai legato a questi gruppi armati, al fiorire di milizie di autodifesa su base etnica, che siano fulani, arabi, barabish, dogon, bambara e anche di tutte le popolazioni che abitano il centro e il nord del Mali. Per quanto il fenomeno del jihadismo saheliano sia nato e si sia sviluppato nel nord del Mali, ormai si è espanso a macchia d’olio non solo al centro del paese ma anche ai Paesi limitrofi come il Burkina Faso e il Niger, in quello che si chiama il Sahel centrale e nella regione del Liptako-Gourma, la cosiddetta “regione delle tre frontiere”. Va detto che dal 2013 a oggi anche la compagine jihadista ha cambiato nome e alleanze. È subentrato soprattutto lo Stato Islamico nel Grande Sahara, un distaccamento del gruppo Stato Islamico nel Sahel che sta alzando l’asticella del conflitto e l’abbiamo visto recentemente con l’uccisione in Niger di sei cooperanti francesi a sangue freddo. In realtà, cambiano le sigle ma poi i signori della guerra sono sempre gli stessi che agiscono quasi indisturbati a cavallo delle frontiere di questi Paesi che sono frontiere porose, difficili da controllare, al centro di diatribe geopolitiche, strategiche, anche di posizionamento di gruppi narcotrafficanti e narcojihadisti che controllano le vie del traffico, dei traffici di armi, di benzina, di sigarette, di auto, di esseri umani. Il tentativo di controllo della Francia, dispiegata nel Sahel con oltre 5.000 soldati, con basi, droni, sistemi di sorveglianza satellitare, continua a non portare i risultati sperati».

A proposito di missioni militari, all’inizio di luglio è stato votato dal Parlamento italiano il rifinanziamento delle missioni italiane all’estero. Tra queste, anche una partecipazione italiana con 200 militari e 20 mezzi terrestri alla divisione speciale di forze europee Takuba, nell’ambito della missione Barkhane. Lei ritiene che questo colpo di Stato cambierà le carte in tavola?

«È quello che si stanno chiedendo in maniera insistente e molto preoccupata il presidente francese Macron e tutta la comunità internazionale occidentale. Fin da subito, con la stessa velocità con cui c’è stato il cambio di regime, anzi anticipando di qualche ora le dimissioni di Keita, Macron ha condannato il tentativo di ammutinamento e ha dichiarato di seguire da vicino in maniera preoccupata l’evoluzione della situazione. Perdere un alleato come Keita nella regione è uno smacco che per la Francia, ha un prezzo molto elevato. Bisognerà vedere come sarà la transizione civile che ha promesso la giunta militare e che tipo di nuovo potere esecutivo e di nuovo governo potranno produrre le elezioni generali, anch’esse promesse dalla giunta militare a Bamako. Tuttavia, la nuova giunta militare al potere ha avuto la stessa fretta di tranquillizzare i partner occidentali e le forze straniere, dicendo di non volere in nessun modo rivedere i contratti, i rapporti e i patti stretti in ambito militare. Sotto questo ombrello rientra anche la task force Takuba che in lingua tamasheq, touareg, significa “spada” ed è un’operazione fortemente voluta e gestita dalla Francia».

In che modo rientra l’impegno italiano?

«Parigi sta cercando disperatamente di trovare nuovi partner che possano sobbarcarsi almeno una parte dei costi umani e materiali del proprio impegno nel Sahel, ufficialmente schierati proprio nel Liptako-Gourma, in questa regione infestata dai gruppi jihadisti, con regole d’ingaggio ancora non chiare. Una parte di questo patto tra l’Italia e la Francia, nato anche dal summit che c’è stato qualche mese fa a Napoli, riguarda la promessa francese di aprire nuovi mercati per l’industria bellica italiana, tutto questo anche con un processo politico e diplomatico, di cui fanno parte l’apertura negli ultimi due anni delle ambasciate in Niger e in Burkina faso e l’annuncio di una futura nuova ambasciata italiana a Bamako. Ora, non possiamo sapere cosa significherà in questo senso la crisi politica, anche alla luce delle dichiarazioni della CEDEAO, la comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale, che è l’organizzazione regionale più importante a livello politico ed economico, che ha imposto un embargo sul Mali e ha minacciato di dispiegare una forza regionale per ristabilire l’ordine costituzionale. Quello che è praticamente certo è che se questo teatro è sempre stato considerato fino ad ora molto pericoloso e complesso oggi lo diventa ancora di più alla luce di questo golpe e di quanto poi le forze in campo possano cambiare nell’arco di una giornata».

 

Foto di Magharebia