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Quel Libano che spera e reagisce

E’ difficile commentare quello che è successo due settimane fa qui a Beirut. I feeling sono diversi, cambiano anche all’interno della stessa giornata e nel giro di poche ore.

Alla paura iniziale si è affacciata l’incredulità, quella del mattino seguente, quando presto, alle sei, sono uscito di casa per fare una passeggiata e poter così vedere con i miei occhi, e senza filtri, quanto era accaduto davvero.

I miei occhi hanno visto vie diverse dai luoghi che avevo battuto e ribattuto nel corso degli anni, la sensazione non poteva che essere quella dell’incredulità. Un’esplosione non poteva aver fatto così tanti danni, non poteva essere stata così forte.

E invece sì.

I giorni successivi sono stati «positivi» in qualche modo.

Il clima era combattivo, la voglia di rimboccarsi le maniche era tanta, come quella di dare una mano a chi ne aveva bisogno, al vicino, allo sconosciuto, all’altro, pulendo, togliendo vetri e macerie, spostando mobili rotti.

Nel mio piccolo, insieme a un amico, ho dato una mano per alcuni giorni, un atto condiviso con tante altre persone, anche provenienti da zone diverse della città e da fuori Beirut.

Ancora una volta la città si è dimostrata “divisa”: quel che accade in una zona, in un quartiere, anche se si tratta di qualcosa di tremendo, non è magari percepito come tale in un’altra, nonostante si tratti di una città di medie dimensioni.

I motivi sono storici, la fine della guerra civile non ha portato a un processo di riconciliazione e a una narrativa comune, anche riguardo alla conformazione della città.

C’è una netta separazione tra l’Est e l’Ovest. Nonostante ciò, in chiave reattiva, la risposta della popolazione è stata comune, una reazione molto probabilmente nata dalla completa immobilità della politica.

Sabato mattina ho fatto un giro a Nation Station, una delle iniziative di quartiere più vivaci (attivata subito dopo la tragedia del 4 agosto) nata all’insegna della solidarietà per dare una mano a chi aveva perso molto – non voglio dire tutto, perché sarebbe esagerato.

Era percepibile un sentimento che accomunava tutti: la frustrazione. Tra le persone serpeggiava lo sconforto per il nulla messo in atto, ancora una volta, dalle istituzioni politiche. Una politica che punta al mantenimento dello status quo.

A Beirut non ci si perde d’animo e ci si dà «da fare».

Sia a livello individuale, sia di quartiere per rispondere ai bisogni pratici.

Un modo per proseguire ciò che sin dal giorno successivo all’esplosione non si è mai smesso di fare, ricostruire e reagire.

Condivido, personalmente, e molto, le parole di un giornalista belga/libanese diventate virali grazie a un video  che ha fatto il giro del web: «Essere libanesi è un mestiere. Una gioia, una pena, un trauma (e forse è più di questo). I livelli di stress sono altissimi, e sono visibili brutture che sorgono accanto ad anfratti di pura bellezza. Il Libano. Maledirlo da una parte con l’incapacità di lasciarlo dall’altra. Amare il Libano nell’incapacità di viverci è una costante per i libanesi».

Condivido molte delle affermazioni citate dal giornalista; e da europeo e «bianco», spesso e volentieri osservo solo i lati positivi, sono loro a prevalere; nessuno mi obbliga a restare qui, volendo potrei prendere il primo aereo e tornare in Europa.

Invece, se sei palestinese, se sei uno sciita del sud della città, se fai parte delle 220.000 persone che da ottobre 2019 a Marzo 2020 (in un paese con meno di sei milioni di persone) hanno perso il lavoro, perso la casa quel maledetto 4 Agosto, la musica ovviamente cambia. E vivi un’assordante malinconia.

Mantenere la speranza, nonostante la rabbia e l’ingiustizia (palese in tanti contesti, basta uscire di casa), non è facile. 

Il popolo libanese quella speranza non vuole perderla.

 

Foto di Simone Scotta, coordinatore in Libano dei Corridoi umanitari promossi dal programma rifugiati e migranti (Mediterranean Hope) della Federazione delle chiese evangeliche in Italia – Fcei