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Una nuova visione della montagna?

Mai, come in questi ultimi anni, la montagna è stata al centro delle discussioni pubbliche. Quasi una moda. Il grande successo di romanzi come Le otto montagne di Paolo Cognetti, vincitore del Premio Strega, pare essere la proiezione del sogno di migliaia e migliaia di ragazzi che aspirano a trasferirsi nelle terre alte a fare gli agricoltori o ad aprire nuove attività economiche. Una cosa è certa: la promessa di futuro delle città, e la capacità di innovazione delle aree metropolitane, sembrano essere in forte crisi. E allora si guarda in modo nuovo, inedito alle montagne: come possibile chance, come progetto al contempo individuale e collettivo, sostenibile e solidale. Non sono solo sogni. Il progetto di rinascita di Ostana in valle Po, il modello valle Maira, e tante altre situazioni a macchia di leopardo in giro per le Alpi e gli Appennini, dimostrano che ciò non è mera utopia, ma è realmente possibile.

La pandemia ha ulteriormente accelerato questa trasformazione culturale, questo mutamento di sguardo verso le montagne. Si è parlato e scritto per mesi di borghi, di ripensamento delle aree interne italiane. Famosi opinion maker hanno detto che il futuro è là, sulle terre alte. Le valli montane in questa estate 2020 sono piene di persone in ogni dove, come non capitava da decenni. E al contempo non possiamo non prendere atto che la realtà, quella dura, continua ad andare nella consueta direzione. 

Per le nostre valli valdesi, i mesi del lockdown hanno significato un nuovo duro attacco alla ferrovia Torre Pellice-Pinerolo, ma anche il tentativo di smantellare la scuola di Angrogna. Come pensare di poter vivere in montagna senza servizi scolastici, sanitari, di mobilità? Sono proprio questi i tre perni base della Strategia nazionale per le Aree interne, voluta nel 2013 dall’allora ministro Fabrizio Barca, che malgrado recenti attacchi politici continua il suo cammino.

È indubbio: siamo in presenza di un conflitto. Ma è un conflitto di tipo nuovo. Perché per la prima volta nella storia unitaria italiana, le montagne e le aree interne del paese (23% della popolazione italiana, pari a 13,5 milioni di abitanti, oltre il 60% della superficie nazionale e il 53% circa dei Comuni nazionali) vengono viste non più solo come un luogo marginale, ma anche come uno spazio di opportunità e di progetto. Quindi il conflitto in corso non è solamente un’azione di difesa dell’esistente, semmai proprio il contrario: una battaglia per il futuro. Le trasformazioni culturali, il cambiamento degli immaginari, hanno mutato le terre alte e gli spazi rurali in qualcosa di anelato e di desiderabile. E proprio in questo sta la differenza dalla stagione di lotte per la montagna degli anni ‘70-’80. E questo è un punto di leva strategico che deve essere sfruttato fino in fondo.

Serve un nuovo progetto, che in molti di noi definiamo “metromontano”. Un nuovo patto di interdipendenza e cooperazione tra città e montagne. Perché non sono solo le seconde ad avere bisogno delle prime. Il Covid-19, e soprattutto il cambiamento climatico prossimo venturo, mostrano che le città sono strutture fragili. Un solo esempio, tra i cento possibili, che da problemi possono, se governati, trasformarsi in opportunità: dove andranno le decine di migliaia di torinesi ultra-anziani, con patologie mediche, quando tra qualche anno temperature e umidità della pianura Padana non consentiranno di vivere lì per 4 mesi all’anno?

Iniziamo a guardare la montagna, e il suo progetto, con occhi nuovi.