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Recovery fund, sacrificata la “visione”

È finita dunque la battaglia europea per la messa in condivisione di debito comune con cui finanziare i piani di rilancio delle nazioni colpite dai terribili mesi di blocco totale dovuti alla pandemia. Una iniezione di denaro necessaria, a fronte della enorme crisi senza precedenti che ha richiesto misure inedite. Molti e alti si sono levati applausi e peana, a dire il vero soprattutto alle nostre latitudini, altrove assai meno, anche perché l’Italia ne sarà il principale beneficiario, con molti freni e occhi addosso. 

Riposte le armi dell’aspra contesa rimangono sul campo molti caduti, sacrificati alla causa della necessità del tutto e subito. Perché i denari da qualche parte andavano presi e da qualche altra parte dovranno rientrare, e a rimetterli non potranno che essere i Paesi dell’Unione. Se poi essi torneranno in forma di nuove tasse o invece di minori spese e maggiori profitti starà nella visione e nella capacità dei governanti. Sul fronte dell’utilizzo dei fondi europei abbiamo purtroppo una tradizione oramai trentennale che vede l’Italia non in grado di convogliare quanto avrebbe potuto ottenere. Speriamo in un cambio di passo anche in tal senso.

Fra i vari tagli colpiscono i fondi che verranno erogati in minor misura per la sanità e la ricerca: non è la prima volta, ma sentirlo proprio di questi tempi, dopo la lunga retorica sulla necessità di farci trovare pronti di fronte a nuovi concreti rischi epidemiologici, appare francamente sconfortante. Tagli ai progetti di controllo e gestione della questione migratoria. Si continuerà a trattare malamente, come emergenziale, un aspetto che invece è strutturale. Tagli ai progetti di innovazione digitale e educazione che hanno portato alle pubbliche lamentazioni anche da parte del presidente dell’Europarlamento Sassoli: l’Erasmus non è solo occasione di balli e partysulle spiagge della Spagna, ma ha contribuito in maniera decisiva a far sì che oggi le nuove generazioni si sentano europee più che appartenenti a un singolo campanile. L’innovazione digitale servirebbe fra l’altro ad abbattere la burocrazia che soffoca le nostre imprese.

Carta straccia anche gli accordi sulla transizione ecologica che doveva portare al 2050 a un Continente neutrale climaticamente. Gli scienziati, sempre loro, profeti di sventura, ci spiegano da anni che è comunque troppo tardi per invertire la rotta: queste sforbiciate paiono una fatale presa d’atto.

I paesi di Visegrad, Ungheria e Polonia in testa, hanno infine ottenuto la scomparsa delle clausole di rispetto dei principi-base di una moderna democrazia quale requisito necessario per l’ottenimento dei fondi: non certo un’urgenza economica questa, ma una precisa volontà politica per Budapest e  Varsavia di continuare a perpetrare politiche sovraniste e xenofobe. Cedere su questo punto rappresenta un’inaccettabile abdicazione ai tanto celebrati principi universali che sono le fondamenta del progetto comune europeo.

«Sappiamo che i negoziati di bilancio sono difficili, ma siamo rimasti delusi nel vedere le priorità politiche dei singoli Stati superare le preoccupazioni intra-nazionali relative al benessere e alla coesione sociale», ha commentato Heather Roy, segretaria generale di Eurodiaconia, l’organizzazione che raggruppa moltissimi enti e associazioni espressione delle chiese protestanti e ortodosse in Europa, tra cui la Diaconia valdese.

«La pandemia di Covid-19 non è stata solo uno shock economico, prosegue Roy, ma uno shock sociale e siamo davvero preoccupati di non aver ancora visto il reale impatto di tale crisi. Ridurre ora i fondi per i programmi che sosterranno le persone nel lavoro, nell’assistenza sociale e sanitaria nonché nella ricerca delle cause delle disuguaglianze e dei fenomeni sociali non è in realtà un approccio inclusivo visionario. Dovremo seguirlo attentamente nei prossimi mesi». Anche alle chiese, così attente in questi anni ai temi ambientali e sociali, il compito di vigilare.

Insomma ogni nazione ha portato un pezzo del proprio cortile nelle trattative. Gli interventi di ampio respiro paiono pericolosamente scomparsi dall’orizzonte. La sfida è aperta. Serve una classe politica capace di coglierla.