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Assad annuncia una nuova Ayasofya in Siria

La trasformazione da museo a moschea di Ayasofya, a Istanbul, ha fatto discutere sin dai primi annunci ed è diventata realtà venerdì 24 luglio. Quel giorno, infatti, si è tenuta la prima preghiera islamica pubblica dopo la riconversione.

La moschea, nata come cattedrale cristiana nel 537 e convertita in luogo di culto musulmano nel 1453, con la conquista ottomana di Costantinopoli, era stata trasformata in museo nel 1935. Negli anni questo luogo simbolico ha attraversato così tante conversioni da essere estremamente sensibile per numerose fedi.

Tra le comunità che hanno reagito con maggiore sdegno all’ultima operazione del presidente turco Recep Tayyip Erdoğan, senza dubbio la Grecia, con cui le dispute territoriali e sul tema delle minoranze durano da almeno un secolo, e la Russia, che già nell’Ottocento guardava con interesse alla “Nuova Roma”, come definita ancora oggi dalla Chiesa ortodossa e dal Patriarcato ecumenico. Eppure, anche tra i Paesi a maggioranza musulmana la decisione è stata accolta in modo non univoco, soprattutto per ragioni politiche.

Proprio per questo, e alla luce dell’alleanza che da anni tiene insieme Mosca e Damasco, il presidente siriano Bashar al-Assad ha annunciato lunedì 27 luglio la costruzione di una replica in miniatura di Ayasofya. La struttura, secondo il governo siriano, verrà costruita nella provincia di Hama, nel centro del Paese, con il supporto proprio della Russia. Secondo il giornale libanese Al-Modon, il terreno su cui avverrà la costruzione dell’edificio si trova nella città a maggioranza ortodossa di Al-Suqaylabiyah (l’antica Seleucia) ed è stato donato al governo da Nabeul Al-Abdullah, capo di una milizia lealista filo-regime all’interno della provincia, con l’approvazione del vescovo metropolitano della chiesa greco-ortodossa di Hama, Nicolas Baalbaki.

Intervistato dal giornalista palestinese Abdel Bari Atwan sul quotidiano Rai Al-Youm, il parlamentare russo Vitaly Milonov ha affermato che la Siria è il luogo ideale per la mini replica di Hagia Sophia perché “a differenza della Turchia, è un paese che mostra chiaramente la possibilità di un dialogo interreligioso pacifico e positivo”. In effetti, questa è l’immagine che il governo di Bashar al-Assad ha voluto fornire di sé negli ultimi decenni, e ancora di più con l’avvento della guerra nel 2011. Nell’annuncio della replica di Ayasofya, Assad ha fatto riferimento proprio all’importanza di un “dialogo pacifico” tra le principali confessioni religiose.

Nonostante un conflitto che ha causato oltre 500.000 morti e che ha costretto milioni di siriani a fuggire, diventando profughi o sfollati interni, Assad si è sempre rappresentato come il protettore della comunità cristiana in Siria, nonostante in varie fasi del conflitto nemmeno le strutture religiose siano state risparmiate, così come non lo sono stati i cristiani stessi, quando non schierati con Damasco.

Oltre a una questione di immagine, il gesto è anche una sfida nei confronti della Turchia, con cui il fronte settentrionale rimane congelato ma certamente non pacificato. Inoltre, Damasco individua in Ankara e nel suo supporto ai ribelli la causa primaria della guerra.

Ma perché la Russia si sta impegnando in un simile progetto, privo di valore strategico da un punto di vista militare e che la costringerà a trattative con la Turchia per evitare l’incidente diplomatico? Innanzitutto per una ragione pratica: il supporto alla costruzione di un “luogo del dialogo religioso” è utile per giustificare in parte la propria presenza militare in Siria con la difesa delle comunità cristiane. Inoltre, negli ultimi anni è sempre più evidente il ricorso russo alla religione come strumento di politica estera, forte di un rapporto tra Cremlino e patriarcato russo che non era così saldo dai tempi dell’impero zarista.

In effetti, la Russia usa la carta della civilizzazione religiosa in politica estera sin dai tempi della conquista dei khanati dell’Asia centrale, nella seconda metà dell’Ottocento, quando giustificò in questo modo al mondo la sua volontà di sottomettere Tashkent e Kokand, per poi allargarsi fino a Bukhara e Khiva e arrivando a lambire i domini britannici in quelli che oggi sono India e Pakistan.

In tempi più recenti, Vladimir Putin ha ripreso questo discorso in più occasioni, come nel caso della gigantesca cattedrale ortodossa dedicata alle forze armate russe, inaugurata lo scorso 22 giugno nella cerimonia per il Giorno della Vittoria, in cui si ricorda la vittoria contro i nazisti nella Seconda Guerra Mondiale. Lo stesso discorso vale per la politica russa in Medio oriente: a novembre, il presidente russo aveva incontrato a Mosca una delegazione dell’Autorità Nazionale Palestinese insieme al Patriarca della chiesa greco-ortodossa di Gerusalemme, Teofilo III, a cui aveva promesso di proteggere i cristiani del Medio oriente e le proprietà della chiesa ortodossa nella città santa. A febbraio, in visita in Palestina, Putin aveva voluto incontrare il presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese, Abu Mazen, a Betlemme, anziché a Ramallah, per caricare di significati cristiani la propria azione e la propria contrarietà al piano di spartizione statunitense per la Cisgiordania.

Anche per provare a ridurre il peso di iniziative come questa, il governo turco è corso ai ripari, affermando che con la riapertura di Ayasofya alla preghiera le icone cristiane verranno preservate, così come la possibilità per i turisti di visitare l’edificio. Ibrahim Kalin, portavoce di Recep Tayyip Erdoğan, ha citato a proposito la cattedrale di Notre Dame a Parigi, aperta sia ai turisti che ai fedeli. «Ayasofya – ha concluso Kalin – apparterrà sempre al patrimonio di tutto il mondo». Eppure, la sensazione è che questo non sia che l’inizio di una nuova stagione di scontro, anche stavolta con il pretesto della fede.

Foto di Nserrano