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Le armi sono ancora troppo facili da ottenere legalmente

Sono trascorsi dieci anni dal 23 luglio 2010, una data carica di significato per chi si occupa di sviluppare delle leggi e una cultura più consapevole intorno al possesso e all’uso delle armi da fuoco. Quel giorno, invitato per un colloquio presso l’azienda in provincia di Lucca con cui in passato aveva collaborato, Paolo Iacconi uccise a colpi di pistola Luca Ceragioli e Jan Hilmer, titolari dell’impresa. L’uomo, che possedeva regolarmente la sua arma grazie a una licenza per “uso sportivo”, si rifugiò quindi nei bagni dove si suicidò.

Da allora, l’associazione Ognivolta Onlus, fondata e animata da Gabriella Neri, moglie di Ceragioli, lavora su questo tema lungo diverse direttrici. «L’omicidio di mio marito e del collega – racconta Gabriella Neri – avvenne nella loro azienda per mano di un collaboratore che aveva un’arma legalmente detenuta ma era un soggetto con dei gravi problemi psichiatrici. Aveva avuto dei TSO, era stato ricoverato per tentato suicidio, quindi era una persona gravemente compromessa a livello psicofisico. Nonostante questo, aveva un’arma legalmente detenuta ad uso sportivo e quel giorno l’aveva con sé e uccise Jan e Luca».

Mentre da un lato rimane l’aspetto privato, il dolore per la tragedia che niente può cancellare, dall’altra questo anniversario rilancia la possibilità di avere leggi migliori per un ambito così delicato, troppo spesso lasciato a valutazioni piuttosto superficiali. Le armi legalmente detenute, infatti, sono causa anche di gran parte dei femminicidi e degli omicidi tra persone che si conoscono o che vivono sotto lo stesso tetto. «Ognivolta nasce con una doppia mission: da una parte quella normativa, il nostro interfacciarci in tutti questi anni con le istituzioni e dall’altra un aspetto più culturale, un messaggio più rivolto a un confronto pacifico e disarmato», spiega Neri.

In Italia c’è una specie di mito secondo cui è estremamente difficile possedere legalmente un’arma da fuoco. Grazie al lavoro svolto da numerose realtà, come OPAL, l’osservatorio permanente sulle armi leggere e le politiche di sicurezza di Brescia, sappiamo bene che non è così. Anzi, le possibilità per ottenere un porto d’armi sono numerose e alcune sono particolarmente semplici. «Già il primo passaggio, quello del colloquio, del certificato anamnesico che deve rilasciare il medico di base a chi richiede questo tipo di licenza, ha delle falle», racconta la presidente di Ognivolta Onlus. «Il certificato viene fatto spesso in maniera abbastanza superficiale. La persona che lo richiede si vede fare alcune domande e se il medico ritiene che la persona non sia tossicodipendente o abbia evidenti problemi avvia tutta la procedura, che in un mese permette di ottenere il porto d’armi. Dopo questo certificato c’è la visita all’ASL, ma se non ci sono impedimenti col certificato la procedura continua. Una giornata al poligono per fare un’esercitazione e il porto d’armi viene rilasciato». Proprio per questo motivo, e alla luce di fatti come quello del 23 luglio 2010, sono numerose le richieste per l’istituzione di un primo controllo su chi fa richiesta di porto d’armi, relativo sia a malattie mentali pregresse sia ai segnali che la persona può dare e che possono rappresentare uno squilibrio nell’equilibrio psichico. «Questo – chiarisce Neri – non è difficile, perché tutti noi possiamo avere momenti particolarmente difficili nella vita, ma in condizioni di fragilità richiedere un porto d’armi può risultare davvero un pericolo per se stessi e per chi ci sta intorno».

Oltre a questa istanza, Ognivolta Onlus lavora da anni su un disegno di legge presentato più volte, ovvero l’istituzione di un’anagrafe informatica che permetta un collegamento fra le istituzioni che rilasciano il porto d’armi e le strutture sanitarie, le ASL. «Nel momento in cui un soggetto viene ricoverato per un TSO o per un problema legato a malattie mentali – spiega Gabriella Neri – chiediamo che venga subito segnalato alle autorità di polizia in modo che se questo soggetto, come successo nel nostro caso, ha un porto d’armi, allora gli possa essere ritirato, sospeso o revocato». Un’anagrafe di questo tipo, inoltre, consentirebbe di procedere con un controllo incrociato che potrebbe evitare diverse tragedie.

A oggi, queste istanze sono confluite in un disegno di legge proposto da due senatori, Mattia Crucioli e Gianluca Ferrara del Movimento 5 Stelle, e presentato alla Commissione Affari Costituzionali. Tuttavia, la norma non è ancora stata discussa e gli ultimi mesi non hanno certo favorito passi avanti, vista l’emergenza che ha investito anche tutto il mondo politico.

Tuttavia, come per numerosi altri ambiti della nostra società, le leggi sono soltanto uno dei pilastri su cui lavorare, insieme alla cultura e alla consapevolezza. Negli ultimi anni, il tema del controllo sul possesso legale di armi ha ceduto il passo, almeno a livello di dibattito mediatico, a quello della legittima difesa, fortemente promosso soprattutto dalla Lega e dall’ex ministro degli Interni, Matteo Salvini, che ne aveva fatto quasi una bandiera. «Noi però siamo andati controcorrente – racconta ancora Gabriella Neri – perché abbiamo seminato molto. Un nostro fiore all’occhiello in questi dieci anni è stato il dialogo con studenti e ragazzi delle scuole. Ogni anno parliamo a un centinaio o più di ragazze e ragazzi, affrontando questa tematica da diverse angolature, anche parlando dei disagi che ci sono alla loro età. Parliamo dei primi segnali e campanelli d’allarme, che non vanno mai sottovalutati perché possono essere specchio di un disagio, di un conflitto che può esplodere magari anche in maniera violenta. I ragazzi hanno sempre risposto con curiosità e stupore quando dicevamo quello che era successo e com’è stato facile che si innescasse questa miccia che poi ha portato all’esplosione della tragedia».

«Questa consapevolezza – conclude la presidente di Ognivolta Onlus – è cresciuta, la rete si è allargata, ci siamo collegati a comitati di vittime di altre stragi, con OPAL, con la Rete italiana del Disarmo. In un dibattito che abbiamo organizzato qualche tempo fa, in cui c’erano molti ospiti tra cui un questore e un magistrato, una signora alla fine mi disse che non aveva mai pensato che ci si potesse difendere in un altro modo. Bisogna parlarne, perché se non se ne parla a volte le persone non riescono a riflettere e vengono trascinate dal pensiero dominante di chi ci vuol far credere che ci si possa difendere solo con le armi, che il nemico è il diverso, è chi viene da fuori della nostra terra. Sono tutte maglie che vanno riprese, perché se si lavora bene a quel livello probabilmente verrà sempre meno la voglia di prendersi un’arma».