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Libia, dall’Egitto una “luce verde” per l’intervento armato

Lunedì 20 luglio il Parlamento egiziano ha dato il “via libera” a un possibile intervento militare in Libia, come chiesto dal presidente Abdel Fattah al-Sisi, con il mandato di “combattere milizie e gruppi terroristici”.

Il voto del Parlamento arriva pochi giorni dopo la visita ufficiale di 50 capi tribali della Libia orientale, schierati con il maresciallo della Cirenaica, Khalifa Haftar. La loro missione al Cairo, partita da Bengasi, era partita da un invito del presidente egiziano a partecipare a una conferenza sulla Libia. Anche in quell’occasione, al-Sisi aveva ottenuto l’investitura per un intervento armato in Libia contro “l’invasione dei terroristi turchi”, con riferimento al supporto di Ankara a Tripoli, sempre più consistente.

In realtà, nel documento non si parla esplicitamente di Libia, una definizione geografica quantomeno scivolosa vista la guerra civile in corso, ma più genericamente di “fronte occidentale”, un termine che non lascia comunque spazio a dubbi.

La decisione egiziana, che non si traduce immediatamente in un intervento armato ma crea le basi legali per farlo, arriva dopo il fallimento dell’iniziativa militare di Khalifa Haftar, che nell’aprile del 2019 aveva lanciato un’offensiva per conquistare Tripoli e tutto l’occidente libico, controllato dal Governo di Accordo Nazionale (GNA) di Fayez al-Sarraj e sostenuto dalle Nazioni Unite. La fine dell’assedio alla capitale libica ha prodotto una controffensiva da parte di Tripoli, che con il supporto aereo e logistico turco ha preso il sopravvento sul campo.

Nel giro di poche settimane, infatti, le forze del GNA hanno riconquistato l’aeroporto della capitale, diverse città chiave della regione e alcune strutture militari di grande importanza. A quel punto, con un supporto turco sempre più forte, è partita anche l’operazione per il controllo di Sirte, a metà strada tra Tripoli e Bengasi e oggi nelle mani delle milizie fedeli alla Cirenaica.

Il sequestro della città strategica aprirebbe le porte alle forze sostenute dalla Turchia per avanzare ancora più a est e potenzialmente prendere il controllo dei giacimenti di petrolio, degli impianti e dei terminal per la distribuzione, che hanno un valore economico cruciale e che oggi si trovano nei territori occupati da Haftar.

Proprio per questo motivo, nelle ultime settimane il fronte che sostiene l’esercito della Cirenaica ha definito la città costiera di Sirte come una “linea rossa”, insieme alla base aerea di Jufra, nell’entroterra. Se le forze del GNA sostenute dai droni e dalla Marina turca decidessero di lanciare un’offensiva verso le due postazioni, l’Egitto dovrebbe intervenire in difesa del Libyan National Army (LNA) di Haftar.

Tuttavia, è difficile pensare che l’Egitto non sia preoccupato dalla possibilità di uno scontro con l’esercito turco, ben armato e ben addestrato e rinforzato da poco meno di 4.000 mercenari della guerra in Siria. Anche per questo, mentre il Parlamento votava la risoluzione, al-Sisi dialogava al telefono con il presidente francese, Emmanuel Macron, e con il presidente statunitense, Donald Trump, per favorire una de-escalation e un cessate il fuoco, così come chiesto da mesi dalle Nazioni Unite.

Stephanie Williams, capo della missione di sostegno delle Nazioni Unite in Libia, ha parlato di “125.000 civili che rimangono in pericolo” e di “palesi violazioni dell’embargo sulle armi delle Nazioni Unite”.

Allo stesso modo, la Russia ha affermato che “non esiste una soluzione militare” al conflitto in Libia. Eppure, Mosca partecipa al conflitto con un esplicito sostegno politico e con la presenza di circa 800 mercenari del Wagner Group, un’organizzazione paramilitare associata a un oligarca vicino al presidente Putin, lasciando più di un dubbio sulla veridicità della propria posizione.

Tutto fa pensare che la via militare sarà ancora una volta quella scelta per i prossimi mesi di questa guerra, ormai sempre meno “per procura” e sempre più scontro tra potenze regionali e globali.