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25 anni fa il genocidio di Srebrenica

Ottomilatrecentosettantadue. E’ il numero che dovremo ricordare ogni volta che riflettiamo sul futuro del nostro continente, sugli errori che hanno rallentato fino a impedire una piena integrazione politica e sui rischi che si nascondono nelle derive nazionaliste – o come si dice oggi “sovraniste” – che stanno travolgendo molti paesi. 

Ottomilatrecentosettantadue, dunque, è il numero delle vittime del massacro di Srebrenica, il punto più basso della storia europea del secondo dopoguerra, quello che più si è avvicinato alle tenebre della follia nazi-fascista. 

Nel nord della Francia, dove sono numerosi i musei e i monumenti che ricordano lo sbarco alleato, ve n’è uno di particolare efficacia iconografica. Si trova a Caen e i fatti che condussero l’Europa verso il secondo conflitto mondiale sono raccontanti accompagnando il visitatore in una lunga discesa seguendo il perimetro di una sfera. Si inizia con la presa del potere del nazismo e del fascismo fino ad arrivare, passo dopo passo, orrore dopo orrore, al fondo, dove si trovano la Shoah e i folli piani nazisti legati alla soluzione finale. Con l’inizio della guerra partigiana e poi con lo sbarco in Normandia, inizia invece la risalita dagli inferi che culmina con la liberazione e l’apertura dei cancelli dei campi di concentramento. Così, quando penso a Srebrenica e ai tanti massacri della guerra che ha dilaniato la ex Jugoslavia, mi torna spesso in mente proprio quella sfera, come se, dopo una lunga stagione di pace, il continente avesse ripreso la sua marcia verso lo sprofondo. 

E del resto, non è solo la misura dell’orrore a interrogarci: non meno importanti sono le parole che hanno condotto in diverse epoche della storia l’umanità verso il baratro, parole sempre sinistramente simili.  

Se c’è un minimo comun denominatore tra avvenimenti temporalmente tanto lontani come la guerra di Bosnia-Erzegovina e il secondo conflitto mondiale, questo ha infatti un nome preciso: nazionalismo. 

Fu questa la benzina che, a partire dal precario equilibrio scaturito dalla Prima Guerra Mondiale, alimentò l’incendio fino a condurre allo sbocco bellico del 1939. 

Allo stesso modo, sessant’anni più tardi, furono le parole pronunciate dai nazionalisti di Serbia e Croazia a dare il via alla dissoluzione della ex Jugoslavia, nazione costruita da Tito nel mito unitario della Resistenza al fascismo. E ancora il nazionalismo sarà il sentimento che animerà e armerà gli assassini di tutte le parti nei vent’anni delle guerre jugoslave del ventesimo secolo. Un nazionalismo che gli ultimi anni hanno nuovamente rafforzato, conducendo anche da quelle parti a una sempre più frequente “inversione morale” che, a dispetto delle sentenze, beatifica i carnefici e capovolge la verità.  

A completare il cerchio, c’è quindi il nostro presente. Un presente nel quale in più parti d’Europa gli slogan che inneggiano al primato nazionale gonfiano il consenso di forze che si richiamano spesso esplicitamente alle pagine più buie della storia. 

Anche per queste ragioni ricordare Srebrenica significa parlare del nostro futuro di cittadini europei. Perché se vogliamo davvero osservare il pozzo dentro al quale può precipitarci il nazionalismo, dobbiamo aprire i libri di storia e ricordare cosa è accaduto un quarto di secolo fa nella ex-Jugoslavia. Per tanto, troppo tempo, ci è stata raccontata come una guerra di religione e invece altro non è stata se non la guerra nella quale i peggiori di tutte le parti si sono trovati alleati nel tentativo -purtroppo riuscito- di distruggere ogni tentativo di convivenza. 

Se come giornalista e come volontario ho solcato molte volte le strade dei Balcani seguendo le orme di un amico come Luca Rastello che prima e meglio di altri ci ha aiutati a capire cosa stava accadendo dall’altra parte della nostra frontiera, è proprio perché credo che da quella terra ci arrivi una lezione di drammatica attualità. Una lezione che mi auguro anche il mondo dell’informazione sappia trasmettere in tutta la sua complessità, sfruttando la tragica ricorrenza del massacro di Srebrenica. 

Pochi giorni prima di quella strage ci lasciava Alex Langer, altra voce che spese molto del suo fiato nel racconto di quel conflitto e nel tentativo di costruire ponti che fossero più resistenti delle granate. Fu sconfitto Alex, fummo sconfitti tutti noi, ma oggi, osservando la silenziosa distesa di Potočari, possiamo quantomeno sperare che l’Europa sappia imparare la lezione che arriva da quelle ottomilatrecentosettantadue vittime. 

Non basta e non basterà dire “mai più”: per strappare la pianta dell’odio bisognerà gettare semi nuovi e vedere crescere alberi sopra i quali si possa osservare oltre, molte oltre, lo spazio dei confini nazionali. In una dimensione comune, solidale e sovranazionale.