640px-cruzes_na_bandeira_lgbt

Una legge che fermi le violenze

Il dibattito in vista di un provvedimento che il Parlamento potrebbe assumere in materia di omotransfobia in parte si è avviato “al buio”, cioè senza avere sotto mano i testi dei relativi disegni di legge; e in parte si svilupperà nelle prossime settimane, secondo due direttrici che, grosso modo, lo influenzeranno: da un lato l’esigenza di tutelare le minoranze (in questo caso minoranze legate all’orientamento sessuale – in altri casi capita che si parli di minoranze etniche o religiose…); dall’altro l’esigenza di tutelare la libertà di espressione, la quale a sua volta rimanda alla libertà di coscienza, a cui tutti e tutte ci dichiariamo affezionati.

Il dibattito non sarà facile né indolore. Tuttavia qualcosa si può fare perché esso sia produttivo, dove produttivo significa non solo l’approvazione o meno di un testo di legge in tempi accettabili. Significa anche – così almeno dovrebbe essere in una democrazia “matura” – che una norma approvata a maggioranza rispecchia una presa di coscienza collettiva; ne è figlia; si richiama, cioè, all’esito di un confronto civile fra posizioni diverse, di cui qualcuno (il Parlamento) con fatica cerca la sintesi. Nel fare questo però c’è una dissimmetria da tenere presente: per tutti e tutte noi, oltre che per i parlamentari, si tratta di “discutere”, ma alcuni e alcune cittadini e cittadine vivono sulla propria pelle delle situazioni drammatiche, dal dileggio alle aggressioni fisiche. E dunque le convinzioni, i punti fermi, che chiunque matura nella propria coscienza possono essere variabili a seconda delle sensibilità, ma il rifiuto dell’incitamento all’odio e della marginalizzazione sociale è prioritario e deve essere garantito dalle Istituzioni.

La strada è stretta, anzi assomiglia a un sentierino di montagna. Ma vale la pena di essere percorsa, e deve andare anche al di là della legge che verrà promulgata: sarebbe ben triste che la consapevolezza e il rispetto delle minoranze, di tutti i tipi di minoranze, fosse praticata “solo” per evitare una sanzione (in questo caso, di natura penale). Se ci pensiamo, ognuno e ognuna di noi mette la cintura in auto non solo per evitare una multa salata ma anche e soprattutto per salvare la propria incolumità. Il rispetto e la tutela delle minoranze devono far parte della crescita di una collettività, e ciò richiede che ognuno svolga il proprio ruolo nel rispetto di quello altrui, a partire dall’educazione sessuale, nelle scuole ma non solo.

Qui dobbiamo fare i conti con un’altra, pesante dissimmetria: se parliamo di questioni sociali di grande rilevanza e coinvolgimento emotivo, come l’accoglienza, il razzismo, le minoranze nell’ambito delle sfere sessuale o religiosa, lo schieramento nei diversi “campi” (chi è più portato all’apertura e all’accoglienza – chi lo è meno) non si riduce alla semplice scelta di un’opzione invece che di un’altra. Perché non è simmetrico l’uso che si fa delle parole. Non per niente da anni si denuncia la pratica degli hate speech: i credenti e le credenti sanno che l’indicazione loro rivolta è «benedite e non maledite» (Rom. 14, 12), e così credo che tutti e tutte cerchiamo di fare. Spesso però verifichiamo che la situazione non è equilibrata: quando ci sforziamo di annunciare il bene, cercando con tutti i nostri limiti di rendere testimonianza all’Evangelo di Gesù Cristo, ci sentiamo poi impegnati a comportarci di conseguenza. L’Evangelo ci chiede di non limitarci alle parole. Invece chi proclama il male (e le aggressioni contro chi è ritenuto “diverso” per orientamento sessuale fanno parte di questo male)… fa già il male. La macchina del bene richiede di essere sostanziata da azioni coerenti, la macchina del male è già attiva, a pieno regime, con le parole di insulto e intimidazione. 

Per questo la posta in gioco è elevata, come lo è in materia di accoglienza. Le buone pratiche hanno dato in questi anni un grosso esempio del fatto che qualcosa si può fare. Ora ci viene chiesto di ragionare sulle parole: credo che anche in questo caso sia necessario partire dalla consapevolezza che la soluzione politica sta nelle mani di tutti e di tutte, e che la soluzione esistenziale passa anche attraverso il riconoscimento dei nostri limiti. Come credenti abbiamo un qualche vantaggio, sappiamo che la salvezza non è nelle nostre mani. Leggere la Bibbia per tutta la vita ci ricorda che la Parola di Dio è molto più grande di noi e che noi non possiamo impadronircene. Per questo cerchiamo di non assolutizzare le nostre prese di posizione e confidiamo nell’ascolto, cercando di convincere chi incontriamo – non solo “i politici” – a fare altrettanto e a migliorare le relazioni che ci permettono di vivere.

 

Foto di Elza Fiuza/ABr, manifestazione a ricordo delle vittime dell’omofobia