lastampa11ottobre1928

Libertà d’informazione. «Bene comune» da sempre in precario equilibrio

L’8 luglio del 1924, in Italia, il governo Mussolini annunciava un provvedimento restrittivo per la libertà di stampa da approvare con esecuzione immediata dal Consiglio dei ministri (disposizioni previste da un precedente provvedimento legislativo predisposto nel luglio del 1923 e mai reso esecutivo), nel quale si dava facoltà ai prefetti di intervenire in modo censorio sulla stampa, in una serie molto ampia di casi, sino alla sospensione delle pubblicazioni o alla chiusura di un giornale.

Molti direttori e proprietari di testate furono dunque licenziati e la Federazione Nazionale della Stampa italiana – Fnsi (sindacato unitario dei giornalisti italiani) –, sciolta per far nascere un Sindacato fascista dei giornalisti.

Il 31 dicembre del 1925 fu poi approvata la nuova legge di disciplina della professione giornalistica (legge 2307/1925) che istituiva l’Albo professionale, stabilendo, di fatto, che «avrebbe potuto esercitare la professione giornalistica, solo chi era iscritto all’Albo» e che quest’Albo sarebbe stato gestito da ciascuna sede regionale del Sindacato (ormai fascista) dei giornalisti per la zona di competenza. Undici erano le sedi in Italia dell’Associazione.

L’Albo divenne operativo nel 1928 con l’approvazione del decreto attuativo (R.D. 26 febbraio 1928, n. 384) con tre elenchi: professionisti, praticanti, pubblicisti.

L’età minima per ottenere l’iscrizione era di 21 anni.

Un comitato di cinque membri nominato dal Ministero di Grazia e Giustizia, di concerto con il Ministero dell’Interno, era preposto a giudicare i colleghi che potevano essere «accusati di disonore della professione».

Questa data, l’8 luglio 1924, che dunque sancì il controllo e la censura dell’informazione in quegli anni, ci spinge oggi a dare uno sguardo all’attuale stato di salute dell’informazione.

Lo scorso 3 maggio è stata celebrata la Giornata mondiale per la libertà di stampa, voluta dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite per ricordarne i principi fondamentali, per difendere i media da eventuali attacchi e per rendere omaggio a tutte le giornaliste e i giornalisti che, per il loro impegno per la verità e il coraggio dimostrato nel difendere il loro diritto di poter informare (e per i cittadini a essere informati), sono stati minacciati, costretti a vivere sotto tutela di una scorta. Altri, a morire assassinati.

Le parole dette il 3 maggio 2020 dal presidente della Fnsi, Giuseppe Giulietti – ben lontane da quell’8 luglio del 1924, e malgrado il mondo sia cambiato e il pericolo nazi-fascista (di allora) sia un ricordo – non rassicurano però nel presente.

«In tutto il mondo è in atto un attacco rivolto ai giornalisti che con le loro inchieste illuminano e scoperchiano il malaffare. Un attacco – ha ricordato Giulietti – che può arrivare, nei casi più estremi, anche all’incarcerazione o più semplicemente alla censura attraverso l’uso di bavagli e di minacce; per alcuni la morte», se il giornalista impegnato nell’inchiesta non si arrende e prosegue con il suo lavoro, malgrado le intimidazioni. «In Egitto, in Turchia, in Algeria, in Ungheria, ovunque vi siano regimi autoritari, i mafiosi, i malavitosi, mal sopportano il fatto di vedersi puntare addosso i riflettori del giornalismo d’inchiesta. Il malaffare, preferisce vivere nel buio». Giulietti ha poi concluso, «i fari accesi, grazie al prezioso lavoro d’inchiesta di tante e tanti giornalisti coraggiosi, spaventano e non piacciono a chi vuole muoversi nell’ombra e nell’oscurità. Oggi, purtroppo, in Italia sono più di venti i cronisti costretti, loro malgrado, a dover vivere sotto tutela di una scorta». Trenta, invece, i giornalisti uccisi (negli anni) per le loro inchieste.

Per quanto riguarda la libertà di stampa in Italia, il Rapporto annuale di Reporters Sans Frontières pubblicato quest’anno promuove il nostro Paese di ben due posizioni (passando dalla 43esima alla 41esima); evidenziando però, con un amaro accento, i venti giornalisti citati da Giulietti e costretti a vivere grazie alla protezione delle forze dell’ordine.

Un livello di violenza, quello rivolto contro i giornalisti, «che continua a crescere soprattutto a Roma, nel Lazio, e nelle Regioni circostanti e nel Sud del Paese», rileva ancora Rsf, anche se in generale afferma che «i politici italiani sono meno “virulenti” che nel passato, verso i cronisti».

Anche se le «ingerenze – purtroppo – non mancano».

Eppure, gli attacchi alla libertà di stampa in Europa «rischiano di diventare la normalità» ricorda ancora la Fnsi, citando l’allarme lanciato dalle 14 organizzazioni internazionali di giornalisti per la libertà di stampa, tra le quali la Federazione europea dei giornalisti (Efj).

L’occasione per ricordare quanto sia necessario difendere la libertà di stampa è stata la divulgazione al pubblico del Report annuale sull’attività della Piattaforma per la protezione dei giornalisti redatto dal Consiglio d’Europa e dove è emerso con forza che «la crisi generata dal Covid-19 sta aggravando una situazione già di per sé allarmante», ammonisce il Coe.

Nel Rapporto 2020 sono stati analizzati gli alert caricati sulla Piattaforma nel 2019, da dove emerge che gli episodi di intimidazione «finalizzati a mettere a tacere i giornalisti del Continente europeo», sono in continuo e costante aumento.

«Un trend – si afferma –, in aumento con l’arrivo della pandemia», con nuove ondate di minacce e attacchi alla libertà di stampa in diversi Stati membri del Consiglio d’Europa.

In risposta alla crisi sanitaria, si legge, «i governi hanno arrestato i giornalisti per le loro segnalazioni critiche; hanno potenziato il controllo sui media approvando nuove leggi per punire le fake news» e  stabilito, a loro insidacabile loro giudizio, «il consentito e il non consentito» e questo, «senza che vi fosse una supervisione di organismi indipendenti appropriati».

Solo lo scorso anno la piattaforma del Consiglio d’Europa ha registrato «142 gravi minacce al diritto all’informazione e 17 nuovi casi di detenzione. 43 i casi d’intimidazioni e molestie; 33 attacchi fisici a giornalisti» fra i quali il Coe annovera anche le uccisioni di Lyra McKee nell’Irlanda del Nord e Vadym Komarov in Ucraina.

In aumento, poi, le «querele bavaglio» o meglio le «querele temerarie» attraverso le quali si pone in essere un’intimidazione ai giornalisti (molti dei quali freelance e dunque non coperti da testate giornalistiche in grado di poter coprire eventuali spese legali), quella di non procedere con le inchieste.

La piattaforma, inoltre, ha affermato ufficialmente che gli omicidi di Daphne Caruana Galizia (avvenuto a Malta nel 2017) e quello di Martin O’Hagan (nell’Irlanda del Nord nel 2001), sono «casi di impunità»; evidenziando così e di fatto l’incapacità delle autorità «di consegnare i responsabili alla giustizia».

Solo la Slovacchia, ricorda ancora il Coe, «ha mostrato progressi concreti nella lotta contro l’impunità, mettendo sotto processo i presunti mandanti dell’omicidio del giornalista Jàn Kuciak e della sua fidanzata, Martina Kusnirova».

Siamo, dunque, di fronte a «una crisi in pieno corso – conclude il Report –, che richiede risposte più urgenti e rigorose per proteggere la libertà dei media e sostenere anche economicamente il giornalismo professionale indipendente», perché «nell’era del “governo d’emergenza” la protezione della stampa (“cane da guardia” per la difesa della democrazia) non può più attendere».

Chiudiamo con una recente «Vittoria della libertà di stampa».

Per l’aggressione subita dai giornalisti de L’Espresso sono state emesse condanne di cinque anni e mezzo di carcere a Vincenzo Nardulli, esponente di Avanguardia nazionale, e Giuliano Castellino, leader romano di Forza Nuova, accusati di rapina aggravata e lesioni ai danni di Federico Marconi e Paolo Marchetti, i due reporter aggrediti al Verano, a Roma, il 7 gennaio 2019 alla commemorazione dei morti di Acca Larentia.

Il direttore Marco Damilano ha ringraziato il sindacato dei giornalisti che ha seguito come parte civile le fasi processuali insieme all’avvocato Giulio Vasaturo.