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Il valore simbolico delle statue

Non ci sono solo gli atti dimostrativi dei manifestanti, sconfinati a volte in vandalismi contro le statue dedicate a Cristoforo Colombo oppure ai generali dell’Esercito sudista che nella Guerra di Secessione rappresentavano la parte degli Usa più ostile all’abolizione della schiavitù. Ci sono anche degli atti amministrativi, o quanto meno delle decisioni che vi preludono, come alcune scelte del sindaco di Philadelphia. Jim Kenney proporrà, infatti, la rimozione della statua del genovese, avendo già autorizzato la rimozione di un altro monumento, dedicato a Frank Rizzo, ex capo della polizia nonché sindaco negli anni ‘70, che invitava a votare solo i bianchi. Il legame fra attualità politica e rivolta sociale, conseguente all’uccisione di George Floyd e ad altri atti di violenza, si indirizza anche su quei simboli del passato che sembrano colludere con l’ingiustizia sociale a danno dei neri americani, e coinvolge anche il rapporto che abbiamo con l’immagine e con l’arte. Ne parliamo con il pastore Jérôme Cottin, professore di Teologia pratica alla Facoltà di Teologia protestante di Strasburgo e storico dell’arte, che ha studiato per un periodo alla Facoltà valdese di Teologia, collaborando poi con Agape e intervenendo alla Giornata teologica «G. Miegge» a Torre Pellice (2008). 

In primo luogo viene da chiedersi: queste incursioni nella storia più lontana, tramite l’accanimento o la rimozione di talune vestigia del passato, non rischiano di far passare in secondo piano i gravi problemi di oggi, l’ingiustizia sociale, la violenza delle forze dell’ordine, la troppa facilità con cui si ricorre alle armi? Non si rischia di prendersela con un’“immagine” anziché con i veri responsabili?

«L’immagine, qualunque sia la sua forma, fa parte della realtà – ci dice –. Non è mai soltanto una “copia della realtà”, considerarla come tale sarebbe cedere a una tentazione platonica. Che tale immagine possa essere problematica o meno, in ogni caso sopprimerla equivale a “amputare” la realtà – o piuttosto la storia – di una parte di sé. Tutti i movimenti rivoluzionari hanno avuto la tentazione di sopprimere determinate immagini: ma si trattava allora di dimostrare che essi facevano tabula rasa di tutto ciò che esisteva prima di loro. Distruggere le immagini significa cancellare la memoria. Equivale ad andare contro quel dovere della memoria che invece rivendicano, a giusto titolo, i movimenti militanti contro il razzismo e la segregazione dei popoli».

In Germania si è cercata una soluzione di compromesso: collocare delle targhe, a fianco a determinate statue o pitture, per spiegare le ragioni storiche che portarono, in un’altra epoca, alla loro realizzazione di un particolare monumento, ragioni che nel frattempo possono essere venute meno. È una soluzione produttiva?

«Ho visto effettivamente, in diverse chiese della Germania, delle raffigurazioni medioevali antisemite, che ora sono state corredate da pannelli esplicativi. Ritengo che questo approccio sia non solo utile ma proprio necessario. Da una parte perché qualunque immagine può essere capita a fondo solo in rapporto a un contesto storico che bisogna conoscere: diversamente si rischia di compiere dei grossolani errori di interpretazione. D’altra parte, perché al giorno d’oggi il rapporto con le immagini e con gli oggetti fa parte a pieno titolo di qualunque approccio educativo. Non si fa più un insegnamento a partire dai soli testi scritti, ma a partire anche da materiali di vario genere: oggetti, immagini, gesti e linguaggi corporali, manufatti. Già a partire dal XVII secolo il grande pedagogista protestante Comenius aveva preconizzato l’immagine come strumento pedagogico al tempo stesso attraente ed efficace».

Noi pensiamo a una statua come a una produzione artistica dotata di un suo valore interno: ma in che modo essa si “carica” dei valori che le vengono attribuiti nel corso dei secoli?

«Una statua può avere un valore estetico, oppure può essere mediocre. Può essere collocata alla vista di chiunque (quando si trovi in un luogo pubblico) oppure può trovarsi in luoghi privati. Ma essa è portatrice, generalmente, di una duplice storia: la storia alla quale essa rinvia (cioè la vita della persona raffigurata, o l’avvenimento storico che essa designa) e la storia di coloro che l’hanno creata o che l’hanno commissionata (perché si era ritenuto necessario collocare una statua in un dato posto, e in un preciso momento?). Ecco, qui possono innestarsi altre storie ancora: la storia di come una statua è stata recepita: nelle epoche successive il rapporto con l’avvenimento che costituì il tema della scultura e con l’epoca in cui è stata realizzata cambia. Si assiste, allora, a una serie di happening intorno a questi monumenti: manifestazioni, banderuole che vi vengono apposte; a volte addirittura delle statue vengono verniciate, vengono loro apposti dei vestiti, vengono camuffate. Io ritengo queste azioni molto interessanti… a condizione di non commettere violenze o atti distruttivi nei loro confronti».

L’iconoclastia fa parte della storia del protestantesimo, o quanto meno di una parte di esso: forse per questa ragione i protestanti sembrano avere con le immagini un rapporto più libero, meno vincolato da una certa aura di sacralità?

«Risponderei: sì e no. Sì, perché per un protestante l’immagine non è altro che un oggetto, una rappresentazione. Non esistono immagini sacre, non esiste la devozione al cospetto di quadri e sculture. Lì per lì, un protestante sarà più libero di fronte alle immagini, e soprattutto si sentirà libero di inventarne di nuove, più attuali, più moderne, più adeguate alla cultura contemporanea. Ma rispondo anche di no, perché c’è una (falsa) convinzione che rimane tuttora fortemente ancorata nell’immaginario protestante – in campo più riformato che non luterano: questa idea è la confusione tra l’immagine e l’idolo. Un protestante tenderà a pensare che non vi sono immagini “neutre”, che esse siano sempre sospettabili di condurre alla tentazione di materializzare il divino o di sedurre i sensi, e quindi di allontanarci da Dio».