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La “chiesa dei presidenti” tra due fuochi

La chiesa episcopale St. John a Washington, la cosiddetta “chiesa dei presidenti”, nelle ultime settimane si è trovata come presa tra due fuochi: da un lato è stata spesso lo sfondo delle dimostrazioni, pacifiche ma anche violente, contro il razzismo e i soprusi della polizia, scatenatesi in seguito all’omicidio di George Floyd. E pur essendo la Chiesa episcopale (sia nel suo complesso sia a livello di parrocchia) a fianco di coloro che dimostravano per la giustizia sociale, fin dall’inizio degli scontri è diventata oggetto di atti di vandalismo.

Sulle colonne dello storico edificio (costruito 204 anni fa) il 22 giugno è stata scritta con lo spray la sigla Bhaz (ossia Black House Autonomous Zone, una sigla associata all’idea di creare una “zona autonoma” nei pressi della Casa Bianca, durante l’ennesima notte di scontri fra dimostranti e polizia nei pressi della Casa Bianca), in cui tra l’altro i manifestanti hanno tentato di abbattere la statua che si trova nella piazza della chiesa, Lafayette Square, dedicata al settimo presidente degli Stati Uniti, Andrew Jackson, proprietario di schiavi.

Nella notte del 31 maggio, un incendio aveva poi danneggiato completamente una sala parrocchiale nel seminterrato della St. John, proprio poche ore prima che la polizia allontanasse con la forza dimostranti pacifici e un gruppo di membri dello stesso clero della chiesa, tra cui Gini Gerbasi, titolare della chiesa St. John di Georgetown e Julia Joyce Domenick, candidata al ministero, impegnate a fornire assistenza ai manifestanti. Il motivo ha fatto il giro del mondo, attraverso la foto del presidente Donald Trump davanti all’edificio con la Bibbia in mano, azione peraltro duramente condannata dai leader episcopali, che hanno accusato anche i metodi utilizzati per allontanare le persone, tra cui gas lacrimogeni (che hanno colpito direttamente Gerbasi). Come ha dichiarato il vescovo primate Michael Curry, Trump «ha usato un edificio ecclesiastico e la Sacra Bibbia per scopi politici di parte. Questo è stato fatto in un momento di profonda sofferenza e dolore nel nostro paese, e la sua azione non ha fatto niente per aiutarci e per guarirci».

Il clima infatti non ha fatto che surriscaldarsi, e la crescita delle violenze ha convinto la chiesa di St. John, che da allora ha continuato a essere luogo di proteste ma anche di veglie di preghiera sulla giustizia razziale, ha deciso, seppure a malincuore, di introdurre delle barriere di sicurezza dietro offerta dell’amministrazione cittadina. Come ha dichiarato il rettore della chiesa, Robert Fisher,  «come parrocchia supportiamo le proteste dei manifestanti per la fine del razzismo sistemico. Come spesso accade in queste situazioni, ci siamo trovati di fronte anche a sfide significative. Detestiamo le recinzioni e le finestre sbarrate, ma è nostra responsabilità proteggere gli edifici. La nostra speranza è di poterle rimuovere appena possibile».

Ta l’altro, hanno fatto presente dalla chiesa, ci sono questioni di sicurezza anche intorno all’edificio, dove la gente si è accampata con tende, cucinando su fuochi all’aperto, fino allo sgombro da parte della polizia. In ogni caso, hanno concluso,  «abbiamo molto lavoro da fare. Nelle prossime settimane dobbiamo riportare la nostra attenzione al riunire e ri-coinvolgere la comunità, continuando la riflessione sulla “guarigione razziale” che abbiamo cominciato».

 

 

Foto: St. John Church, Philip Rozenski via Istock (dettaglio)