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Fototessere 1: una piacevolissima sorpresa

Con questa intervista prende il via una serie di incontri dialogati che Paolo Ricca realizza per Riforma. Verranno coinvolti, di volta in volta, uomini e donne che hanno dei ruoli conosciuti all’interno delle chiese evangeliche in Italia o nell’ambito ecumenico, ma anche persone che, pur non avendo incarichi conosciuti ai più, portano con sé un’esperienza di fede significativa per tutti e tutte noi.

Buona lettura! 

 

Il Sae (Segretariato Attività ecumeniche), creato da Maria Vingiani nell’ormai lontano 1965 e oggi presieduto da Piero Stefani, è il maggiore organismo ecumenico operante in Italia. Per quanto ne so, non esiste qualcosa di analogo in alcun altro paese europeo. Grazie dunque a Maria Vingiani, recentemente scomparsa, per avergli dato vita quando di ecumenico, in Italia, non c’era assolutamente nulla: il Sae è stato a lungo il classico “fiore nel deserto”. Esiste anche, si può dire fin dall’inizio, un Gruppo teologico del Sae, formato da una dozzina di “teologi” (ortodossi, cattolici, protestanti), che produce documenti su temi importanti, trattati in chiave ecumenica. Nell’ultima seduta di questo Gruppo, avvenuta online il 2 giugno scorso, abbiamo avuto una piacevolissima sorpresa: una cristiana pentecostale, Maria Paola Rimoldi, è stata accolta come membro del Gruppo. Non era mai successo. Lutero dice e ripete volentieri che «un cristiano è un uccello raro» (ricorrendo anche alla versione latina della metafora: rara avis). Possiamo aggiungere che un cristiano davvero ecumenico è un uccello ancora più raro (malgrado tutta la retorica che le chiese fanno in proposito): un o una cristiana pentecostale che pratichi l’ecumenismo è una rarità assoluta. L’abbiamo intervistata.

– È vero, secondo lei, che un o una cristiana pentecostale che pratichi l’ecumenismo è, oggi, in linea generale e pensando in particolare al panorama italiano, una rarità assoluta?

«Sì, il discorso ecumenico fatica ancora a diffondersi tra i pentecostali, soprattutto in Italia».

– Ma ci sono delle eccezioni. Ce ne parli.

«Il panorama sta un po’ cambiando. Assistiamo a scambi sia con il mondo riformato, in particolare valdese e metodista, sia con quello cattolico; si registrano aperture reciproche in ambito accademico, grazie anche al contributo della Federazione delle Chiese pentecostali».

– Come mai lei appartiene alla rara avis dei pentecostali ecumenici?

«Credo nel dialogo come percorso esistenziale, di crescita degli individui e dei gruppi; un dialogo che non deve per forza arrivare a una soluzione condivisa, ma che permette di camminare meno soli e, nel caso di quello ecumenico, di scoprire la bellezza e il significato della tradizione e dell’esperienza di fede e di vita di altri fratelli e sorelle cristiani. Gesù ha pregato per la “perfezione” dell’unità (Gv 17, 21-23). Perfezione è parola impegnativa e impossibile ad applicarsi per noi umani, senza l’aiuto dello Spirito Santo: solo Dio è perfetto. Non a caso, l’unione a cui siamo chiamati ricalca quella del Padre e del Figlio; una sfida ardua ma obbligata, se Gesù si è espresso così. La divisione della cristianità, che mi addolora moltissimo, per me è l’attacco più spietato sferrato da Satana contro il corpo di Cristo. Non dimentichiamo, infine, che l’evento della Pentecoste ha portato con sé la capacità di comprendersi pur non parlando la stessa lingua di partenza; lo Spirito Santo ci fa accedere, se glielo permettiamo, a un linguaggio spirituale che ci avvicina, nonostante le differenze».

– Sarebbe d’accordo, lei, nel considerare l’ecumenismo una “conversione nella conversione” alla fede cristiana?

«Sì; questa proposta, se vissuta in termini spirituali prima che dogmatici o teologici, credo non rappresenti né una rivisitazione del sincretismo, né una rimessa in discussione della purezza dei fondamenti della fede personale e della comunità di appartenenza; al contrario, costringe a demolire l’orgoglio religioso e le fortezze mentali, a imparare dalla reciprocità degli incontri, a sostituire alle visioni preconcette “l’occhio limpido” di cui parla Gesù (Mt 6, 22), a purificare il cuore e a ricercare maggiore radicalità evangelica».

– Se lei dovesse spiegare in poche parole a una persona che si professa agnostica o atea perché e in che modo lei è diventata credente e cristiana, che cosa direbbe?

«Sono corsa a Gesù fin da bambina; ho desiderato conoscerlo personalmente e confermare il motivo della mia scelta interiore, inizialmente istintiva. La rivelazione biblica di un Dio che è Amore, che per amore si è fatto uno di noi e ha dato la sua vita per noi è diventata esperienza di fede, desiderio di vivere immersa in quell’amore e di manifestarlo al mondo».

– È lo stesso, secondo lei, dire: «Io credo in Dio», oppure «Io credo in Cristo»?

«Per me no. Io professo la mia fede nel Dio di Gesù Cristo, quel Dio che, “dopo avere parlato molte volte e in molte maniere ai padri per mezzo dei profeti, in questi ultimi giorni ha parlato a noi per mezzo del Figlio” (Ebrei 1, 1-2a); quel Dio che, come detto prima, è Amore e in Cristo si è rivelato come Padre, Figlio e Spirito Santo».

– Immagino che ci sia un motivo particolare per cui Lei ha scelto, diventando cristiana, di diventare pentecostale. Qual è?

«Ne dico tre. L’adesione a una chiamata alla sequela di Cristo che mi ricordava la forza e l’integrità di quella dei primi credenti, accompagnata da testimonianze di vite completamente trasformate; la percezione della presenza tangibile e interiorizzata dello Spirito Santo, quale principio e motore della mia esistenza; ma soprattutto, a segnare la mia svolta è stata un’esperienza profonda di perdono, vissuta quale puro e indescrivibile dono dell’amore e della grazia di Dio e del suo Spirito».

– Perché, secondo lei, è importante, oggi, la qualifica “pentecostale”?

«Per non dimenticare che la Chiesa del Signore è nata a Pentecoste e che, dopo l’Ascensione di Gesù, è lo Spirito Santo la presenza viva ed efficace di Dio che opera nel mondo, sia nel e attraverso il corpo di Cristo sia in modi altri, sovrani, ineffabili e sorprendenti».

– Che cosa si aspetta dalla partecipazione al Gruppo teologico del Sae?

«Provo curiosità, entusiasmo per essere una componente in più dentro questa polifonia di voci cristiane, gratitudine per l’accoglienza, fiducia per la fraternità percepita, speranza di poter dare il mio contributo per rendere meno distante il cammino tra le Chiese».