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Hong Kong, la legge sulla sicurezza nazionale diventa realtà

Dopo tre giorni di lavoro, il Comitato Permanente del Congresso Nazionale del Popolo (NPCSC), il più alto organo legislativo di Pechino, ha approvato all’unanimità la legge sulla sicurezza nazionale per Hong Kong, al centro delle proteste dei mesi scorsi nell’ex colonia britannica. La norma vieta atti di secessione, sovversione, terrorismo e collusione con forze straniere per mettere in pericolo la sicurezza nazionale, e prevede pene fino all’ergastolo per venisse ritenuto colpevole.

La legge, di cui si attendono dettagli nei prossimi giorni, è stata visionata soltanto da pochi delegati di Hong Kong, e ha suscitato l’immediata reazione delle organizzazioni per i diritti umani. Amnesty International ha descritto l’approvazione della legge come «la più grande minaccia ai diritti umani nella storia recente della città». «La velocità e la segretezza con cui la Cina ha promosso questa legislazione – si afferma nel comunicato stampa firmato da Joshua Rosenzweig, rappresentante per al Cina – intensifica la paura che Pechino abbia creato un’arma di repressione da usare contro i critici del governo, comprese le persone che stanno semplicemente esprimendo le loro opinioni o protestando pacificamente».

Dello stesso avviso è Au Loong-Yu, scrittore e storico attivista politico di Hong Kong, secondo cui «questa norma potrebbe porre fine al nostro sistema, semplicemente perché non si inserisce nel quadro di Hong Kong».

La nuova legge era stata annunciata e discussa in occasione del Lianghui, la doppia sessione dei Parlamenti cinesi, che si è tenuta a fine maggio a Pechino. Allora, il premier Li Keqiang aveva annunciato che la norma si sarebbe inserita nella logica “un Paese, due sistemi”, che caratterizza l’ex colonia britannica dal 1997, quando tornò sotto la sovranità cinese pur mantenendo un elevatissimo grado di autonomia. Tuttavia, un primo colpo a quel principio viene dato proprio dal percorso seguito dalla legge. Il governo dell’isola, infatti, non è stato coinvolto nella sua introduzione, nonostante la Legge Fondamentale di Hong Kong preveda che le regole sulla sicurezza siano introdotte dagli amministratori locali. Il fatto è che in materia di sicurezza nazionale il governo centrale ha sempre avuto il potere di imporsi sul governo di Hong Kong, ma finora non lo aveva mai fatto per non mostrarsi troppo invadente. Quando a maggio scoppiarono le prime proteste contro la legge, il quotidiano hongkongese South China Morning Post spiegò che «Pechino ha esaurito la pazienza dopo aver aspettato quella legge per 23 anni». L’ultimo tentativo a livello locale per l’introduzione di una norma che regolasse le minacce alla sicurezza nazionale, in effetti, risale al 2003, quando altre proteste la bloccarono. Da allora, quell’area è rimasta una zona grigia, e con lo scontro sempre più forte tra Cina e Stati Uniti la questione è tornata d’attualità.

Secondo il governo cinese, infatti, le proteste di Hong Kong del 2019 furono istigate da potenze straniere e le nuove leggi serviranno a proteggere la Cina da questo tipo di influenza esterna. Per gli attivisti del fronte pro-democrazia, invece, le nuove leggi sono un tentativo del governo cinese di mettere fine alle proteste e violare la libertà di parola e i diritti riconosciuti dalla Legge Fondamentale di Hong Kong, la piccola costituzione in vigore nell’isola. La legge dovrebbe entrare in vigore il 1 luglio, nell’anniversario del passaggio di consegne tra il governo di Londra e quello di Pechino.

Poco dopo l’approvazione della norma, avvenuta alle 9 di mattina, Carrie Lam, l’amministratrice delegata di Hong Kong, ha dichiarato che non avrebbe commentato la nuova legge fino a quando non fosse stata approvata dall’NPCSC, elencata nell’allegato III della Common Law e sottoposta al suo governo per l’approvazione.

Tuttavia, non si sono fatte attendere altre reazioni: alcuni tra i membri chiave del fronte pro-Democrazia, segnatamente i dirigenti del partito Demosisto, hanno annunciato di aver lasciato il partito. Tra questi, Joshua Wong, simbolo delle proteste del 2014 e del “movimento degli ombrelli”, l’avvocato Nathan Law e la giovane attivista Agnes Chow Ting, che ha affermato che non si impegnerà più in contatti con la comunità internazionale. Subito dopo le loro dimissioni, il partito ha dichiarato la fine immediata delle proprie attività a Hong Kong. Si ritiene che l’organizzazione Demosisto sia uno dei principali obiettivi della legge, dal momento che Wong ha svolto un ruolo importante nel fare pressioni sui politici statunitensi per il loro sostegno per approvare l’Hong Kong Human Rights and Democracy Act lo scorso anno.

Allo stesso modo, anche il gruppo indipendente Studentlocalism ha dichiarato che le proprie attività si sposteranno a Taiwan, Stati Uniti e Australia.

Non è facile capire quali saranno gli effetti della nuova legge sui cittadini hongkongesi, ma quel che risulta evidente è che la legge non è riuscita ad attivare grandi proteste di massa come quelle del 2019, quando di fronte al progetto di legge sull’estradizione scesero in strada milioni di persone, che imposero un passo indietro al governo locale di Carrie Lam. Colpa sicuramente della repressione, spiega Au Loong-Yu, ma anche di debolezze strutturali dei movimenti del passato.«Per far esplodere di nuovo un grande movimento di protesta – spiega – sono necessarie alcune condizioni preliminari. In primo luogo, il movimento deve capire come proteggere i lavoratori quando scioperano. L’anno scorso, la ragione per cui dopo il primo sciopero del 5 agosto, le molte altre chiamate non hanno avuto successo è che il movimento non aveva strumenti per proteggere i lavoratori quando vengono licenziati. E così, senza prima affrontare questo problema, è difficile chiamare allo sciopero». In secondo luogo, rispetto all’anno scorso è cambiata la scala della partita. «Le persone – racconta ancora Au – possono combattere il governo di Carrie Lam, ma affrontare direttamente Pechino è un’altra cosa. Tutti sanno che il governo di Pechino è senza scrupoli, non ha rispetto per i diritti umani. Possono attaccarti, possono usare tutti i tipi di trame per minare te o la tua credibilità o possono persino minacciare la tua vita o minacciare le tue famiglie. Non ci sono confini per le loro azioni. Chi è più maturo, chi ha la mia esperienza, lo capisce. Ed è per questo che molte persone di mezza età oggi sono più riluttanti a partecipare alla protesta. C’è il pericolo che i giovani radicali siano isolati».

A mancare, rispetto allo scorso anno, sono anche le proteste della comunità finanziaria, uno tra gli attori più importanti per la tenuta del sistema di Hong Kong, che da decenni è il ponte per tutte le attività economiche internazionali di Pechino, tanto in entrata quanto in uscita. Secondo Roland Hinterkoerner, operatore finanziario e analista politico statunitense attivo a Hong Kong, «la legge sull’estradizione del 2019 aveva suscitato molte emozioni perché aveva toccato un nervo scoperto», mentre nel caso della legge sulla sicurezza nazionale, che comunque prevede che i processi si svolgano a Hong Kong, il discorso è diverso. «Alcune aziende – spiega Hinterkoerner – avevano cominciato a ripensare al proprio status. Ma l’idea che era stata ventilata da alcuni, cioè di trasferirsi a Singapore, è stata più chiacchierata che reale, esattamente come l’ipotesi di trasferirsi in Canada, in Australia o nel Regno Unito, cioè Paesi di cui un gran numero di persone a Hong Kong ha il passaporto. L’impressione è che queste riflessioni servano più che altro per tenersi aperte delle opzioni, perché l’idea che si possa lasciare davvero Hong Kong è abbastanza improbabile. Penso che questo sia anche il sentimento della comunità imprenditoriale, perché alla fine se si vogliono fare affari con la Cina, Hong Kong è il posto giusto per farlo. Si potrebbero anche fare da Singapore, ma geograficamente e dal punto di vista culturale è un po ‘troppo distante. Singapore è l’hub commerciale per il sud-est asiatico, ma Hong Kong avrà sempre invece la posizione di porta verso la Cina. Parlando con le aziende che operano a Hong Kong ho capito che quasi tutte ci penserebbero più di due volte prima di rinunciare a Hong Kong per condurre i loro affari con la Cina».

La velocità con cui questa norma è stata annunciata e approvata ha sorpreso moltissimi osservatori. Ci sono diverse spiegazioni, che abbracciano diversi livelli del rapporto tra la Cina e Hong Kong e tra la Cina e il resto del mondo. «Questo regime – afferma Au Loong-Yu – semplicemente non può coesistere con l’autonomia di Hong Kong. L’autonomia di Hong Kong implica la libertà di parola e la libertà di circolazione delle informazioni. E il Partito Comunista sa benissimo che questioni come i conti bancari all’estero in mano alla leadership sono ben documentate e devono fermarne la circolazione nella Cina continentale, devono assicurarsi che le persone non ricevano questo tipo di notizie». Ma esiste anche una dimensione globale. «Nel momento in cui Pechino ha tracciato la sua linea a nove punti nel Mar Cinese Meridionale, la grande gara tra Cina e Stati Uniti è stata messa sul tavolo», ricorda lo scrittore. «L’impero americano non poteva tollerare una Cina sempre più assertiva». La guerra commerciale, il riesplodere delle tensioni su Taiwan e gli arresti incrociati di funzionari e imprenditori, dunque, sono soltanto capitoli di uno scontro molto più ampio, di cui abbiamo finora visto soltanto l’inizio.

Eppure, secondo Kishore Mahbubani, accademico e diplomatico singaporese di lungo corso, presidente del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e autore del saggio Has China Won?, «la Cina non ha nessun desiderio di sostituire gli Stati Uniti né come unica superpotenza. Il problema è che, siccome la Cina continua a crescere, l’economia cinese diventerà inevitabilmente la numero uno e gli Stati Uniti si sentono psicologicamente minacciati. È così che il più grande scontro geopolitico di tutti i tempi è ora scoppiato».

Ma, tornando a Hong Kong, si tratta davvero della “morte dell’autonomia” dell’ex colonia britannica? Difficile dirlo, almeno in una breve prospettiva. «Non credo che cambieranno troppe cose», sottolinea Roland Hinterkoerner. «Hong Kong ha le infrastrutture e lo status di principale porto finanziario per la Cina, quindi ogni azienda che vuole trattare con pechino e godere di questo immenso mercato non si ritirerà da Hong Kong, ma cercherà opportunità per mantenere il proprio status qui ed essere in grado di accelerare gli affari in un senso diverso. Penso però che col tempo vedremo Hong Kong diventare più cinese, non solo perché politicamente è una città cinese, ma anche per via del fatto che sempre più cinesi della terraferma arrivano a Hong Kong e sempre più aziende cinesi operano qui». Molto più preoccupato Au Loong-Yu. «L’idea di “Un paese, due sistemi” non si limita al piano economico, ma si tratta prima di tutto di politica. Pechino ha sempre cercato di aggirare Hong Kong». In effetti, negli ultimi vent’anni sono state istituite almeno quindici zone di libero scambio, con Shanghai in cima alla lista, pensando di poter costruire un’altra Hong Kong. Ma nessuna di queste zone ha funzionato, anche se c’erano promesse di libertà economica, libertà di scambio, la convertibilità del renminbi, la possibilità di registrare qualsiasi tipo di impresa e così via. «Non ha successo – prosegue Au – semplicemente perché non esiste un vero stato di diritto. I segretari di partito di queste zone di libero scambio devono seguire le linee del partito piuttosto che seguire la legge. E questo è uno dei problemi di base in Cina, che non è mai stato risolto. Hong Kong non è solo un porto franco. Negli ultimi 40 anni ha sviluppato un alto grado di libertà politica, una società civile vibrante con molte associazioni civili e movimenti di protesta e sociali. Ma ora, con la legge sulla sicurezza nazionale, Pechino vuole farla finita, il che significa che Pechino governerà direttamente Hong Kong. Il segretario del partito, l’ufficio di collegamento e in futuro questa agenzia di sicurezza nazionale di Hong Kong saranno al di sopra della legge».