kibo2017_22-1a

Statue e monumenti, soluzione alla tedesca?

Fra iconoclastia e tutela ad ogni costo delle statue in quanto rappresentazione della storia collettiva, anche se spesso senza la S maisucola, la Germania da tempo ha scelto una via mediana, che pur non esente a intervalli regolari da critiche, può rappresentare una concreta modalità di gestione delle diverse tensioni. 

Da tempo a fianco di alcuni monumenti e statue i cui soggetti sono stati protagonisti di vicende anche tragiche del passato sono state apposte delle targhe esplicative, che riportano spiegazioni utili a contestualizzare i protagonisti e le vicende rappresentate. Non una giustificazione di alcunché, ma un aiuto a comprendere perché in un dato periodo storico si era sentita la necessità di innalzare una testimonianza concreta a questo o a quel personaggio.

Non tutto è stato ovviamente salvato nel tempo: le opere dedicate ai terribili anni del nazismo sono state in larga parte abbattute, ma col passare degli anni alcune strutture sono state risparmiate, in primis per la loro funzionalità, come il centro congressi di Norimberga, teatro delle oceaniche adunate del reich, mentre le recenti scoperte di campane con frasi o simboli che si rifanno all’identità nazista sono state o spostate in musei accompagnate da targhe esplicative o eliminate, segnale di differenti tensioni su temi che toccano la carne viva del passato tedesco, seppur con una intensità di dibattito decisamente attenuata rispetto a un tempo. L’idea oggi è per lo più che il rischio di un’idolatria postuma sia scongiurata. Quanto questa visione, e previsione, sia corretta, viene spesso da dubitarne.

Stessi dibattiti attorno ai cosiddetti “Judensau”, bassorilievi antisemiti datati Medioevo (anno 1305 quello sulla chiesa di Wittenberg ad esempio), che rappresentano una scrofa che allatta dei giovani ebrei mentre un rabbino è intento a scrutare le natiche dell’animale. Oggi una simile opera ci fa sobbalzare sulla sedia, o almeno dovrebbe. A più riprese in questi anni sono state intentate delle cause per giungere alla loro rimozione (sono una trentina in Germania e un paio in Francia), ma ancora nei giorni scorsi un tribunale ne ha rigettato l’ultima in ordine di tempo, con la motivazione che la scultura è parte di un monumento censito come storico a rilevanza nazionale, per cui non sottoponibile a revisioni di sorta, e aggiungendo che la targa esplicativa (collocata nel 1988) è sufficiente per contestualizzare il suo messaggio offensivo.

Le reazioni indignate continuano a essere molte e migliaia di firme sta collezionando una apposita petizione on line lanciata oramai alcuni anni fa che chiede la rimozione delle Judensau, così come fanno a gran voce il consiglio parrocchiale e lo stesso pastore della chiesa.

Altro aspetto è quello dei monumenti legati al passato coloniale tedesco: anche in questo caso il commissario culturale evangelico Johann Hinrich Claussen ha supplicato di lasciarli il ​​più possibile in piedi e di commentarli storicamente e artisticamente. «È importante ripensare la presentazione insieme, perché molte persone vivono in Germania e hanno una storia di migrazione dalle ex aree coloniali», ha detto Claussen all’Evangelical Press Service (Epd). «Finora, i monumenti coloniali non sono stati al centro dell’attenzione e in questi ultimi anni finalmente qualcosa sta cambiando».

«Abbiamo un grande compito educativo davanti a noi» ha proseguito Claussen. «I monumenti potrebbero svolgere un ruolo importante in questo contesto. Portano un tema scomodo nello spazio pubblico, in modo problematico. Ci sono molti modi comprovati e creativi per fare corretta informazione a riguardo».

In considerazione della richiesta da parte di alcuni gruppi interessati di abolire monumenti o altre forme di memoria come i nomi delle strade, che sono visti in relazione alle accuse di antisemitismo, razzismo o sessismo, Claussen ha dichiarato: «Dobbiamo decidere caso per caso. A volte tali monumenti sono semplicemente sbagliati. e stupidi, altri sono veramente delle ferite, altri vengono attaccati a torto». 

L’associazione Berlin Postkolonial da vari anni sta tentando di far cambiare molti nomi delle vie della capitale tedesca e di altre città. L’ Afrikanisches Viertel di Berlino, il quartiere africano, nei nomi delle sue vie riflette il coinvolgimento coloniale tedesco a cavallo fra XIX e XX secolo: la Wissmannstraße, deriva dall’esploratore Hermann von Wissmann, inviato dal Re Leopoldo II di Belgio in quella che oggi è la Repubblica Democratica del Congo vista la sua abilità nel piegare interi villaggi al volere Europeo, bruciandoli; la Lüderitzstraße da Adolf Lüderitz, mercante e personaggio politico nella colonia dell’Africa Tedesca del Sud-Ovest, corrispondente oggi allo stato della Namibia, sfruttò e prese il controllo delle risorse e terre dei locali. Come riporta il portale Berlino Magazine tutt’oggi in Namibia esiste la cittadina di Lüderitz, soprannominata anche la “Monaco del Deserto”. Stesso discorso per Gustav Nachtingal, Carl Peters o Carl Hagenbeck che commerciava leoni e tigri per il circo di P.T. Barnum e progettò di allestire lo zoo come vetrina per gli animali provenienti dai possedimenti africani della Germania. Seguendo il modello del parco esistente ad Amburgo, il sito avrebbe probabilmente anche ospitato uno zoo umano in cui esibire popolazioni non europee come se fossero una specie di fauna selvatica. Quello zoo non si è mai aperto, ma la sua concezione si rifletteva nei nomi delle strade vicine. Ancora oggi, ci si ritrova a passeggiare lungo Togostrasse, attraversando la Kamerunerstrasse per imbattersi nel piccolo parco sulla Kongostrasse

Dibattiti su dibattiti ma i nomi delle vie sono ancora quelli.

La damnatio memoriae non l’abbiamo certo inventata nel XXI secolo e le soluzioni non appaiono semplici, anche in Italia. Come ricordava il pastore Peter Ciaccio, guardiamo al dibattito anche acceso in corso nelle altre nazioni con in fondo un certo distacco, e non sappiamo cogliere che «ci sono, infatti, ancora strade, gallerie, ponti, scuole, caserme, ospedali, addirittura la Biblioteca Nazionale di Napoli, che sono intitolati a Vittorio Emanuele III. Questo nome è legato alle Leggi Razziali: Vittorio Emanuele III fu il sovrano che, firmandole e promulgandole, tradì quei cittadini ebrei delle cui vite era il massimo responsabile in terra.

È un momento buio nella nostra storia, forse il momento più buio del già oscuro Ventennio fascista. Le Leggi Razziali declassarono a nemici della razza italica — qualunque cosa questa espressione volesse dire — uomini, donne e bambini ebrei, che erano fino a quel momento sudditi e cittadini della monarchia, persone che contribuivano al destino del nostro paese.

Ancora oggi, a 75 anni dalla liberazione, il nome di Vittorio Emanuele III appare su decine, forse centinaia di luoghi pubblici: sarebbe ora che quel nome fosse sostituito con i nomi di ben altri italiani, magari proprio di ebrei espulsi dalla vita pubblica italiana a causa di quelle leggi.

Non si tratta di rimuovere la storia o di buttare giù monumenti, quanto piuttosto di prendere atto della storia, di come sono andate le cose. Si tratta di rendere giustizia alla storia, alle cittadine e e ai cittadini ebrei italiani che persero ogni diritto in maniera arbitraria da un giorno all’altro. Sarebbe un gesto di riparazione importante dopo che tanti italiani non ebrei approfittarono come dei rapaci nel ricoprire i posti di lavoro che gli italiani ebrei furono costretti a lasciare liberi, nelle università, nei tribunali, nell’esercito. Sarebbe un importante atto di riconciliazione nazionale. Sarebbe una battaglia che potremmo fare insieme come chiese e comunità religiose, come associazioni laiche che promuovono un’Italia dove non ci sia più spazio per il razzismo. Sarebbe una possibilità di azione comune, di unità».