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Una partita e un’emergenza per scoprire chi siamo

Se gli anniversari, a cui ci affidiamo sempre più per orizzontarci in un “oggi” pieno di incertezze, sono più pregnanti alla scadenza dei 50 o dei 100 anni, certo la “partita del secolo” (Stadio Azteca, Città del Messico, 17 giugno 1970) è uno degli eventi-cardine intorno a cui ruotano emotività e, forse, qualche riflessione. Anche e soprattutto nel momento che stiamo vivendo. Non solo perché la partita, giocata sei mesi dopo piazza Fontana, e un mese dopo il varo dello Statuto dei lavoratori, viene ricordata come un evento unificante della nazione. Direi piuttosto che ognuno e ognuna ne vive un ricordo personalissimo, che parla a lui o a lei in modo creativamente autonomo: cioè ognuno mette in rapporto quel particolare modo di vivere una nottata incredibile con tutto ciò che gli è capitato intorno nei successivi 50 anni. Non possiamo saperlo, ma forse qualcuno, nell’alternanza dei risultati (avanti noi/pari/avanti loro/pari/avanti noi/pari/definitivo 4-3), potrà avere fatto perfino un passo blasfemo e, sul 2-1 per la Germania, trasportato dall’telecronista, potrà aver parafrasato Giobbe: «… il Signore ha dato, il Signore ha tolto» (1, 20). E però alla fine, proseguirebbe il blasfemo, ha tolto “a loro”.

Io serbo di quella nottata il ricordo di un salto di qualità nella mia capacità di resistere al sonno: a 8 anni, scuola terminata da poco, potevo permettermi non dico di stare alzato, ma di andare a letto presto per essere svegliato verso mezzanotte, in tempo per gli inni nazionali. Dunque, una tappa formativa, e tanto meglio se andò bene (per fortuna la finale, poi persa con il Brasile, si giocò in altra ora). Altri hanno visto, in quella partita: unità nazionale, un regalo fatto agli italiani emigrati in Germania (quattro anni dopo ci fu il fallimentare Mondiale in Germania, ma in quello stesso anno Franco Brusati raccontò, con Pane e cioccolata, l’orgoglio di Nino Manfredi, emigrato in Svizzera e vessato perché italiano: al momento del goal azzurro si fa buttare fuori dalla birreria dove guarda la partita…); e poi ancora altre immagini: il difensore arcigno Burgnich che ci porta sul 2-2, la “staffetta” Mazzola-Rivera, il tedesco che gioca nel Milan e ci costringe ai supplementari, gli attaccanti centrale e laterale che si scambiano di ruolo mandando in confusione gli avversari. Scegliete voi, tanto pratichiamo tutti lo sport di improvvisarci CT della Nazionale e fini esegeti delle partite, pensando di poter dare interagire con gli allenatori tramite i cronisti a bordo campo (ma questa è storia più recente). E poi c’è l’idea che una partita possa essere come un film: un innesco forte (1-0 all’8° minuto), una lunga e tediosa fase di “stanca” in cui non succede nulla come in alcuni film “da cineforum”, e poi fughe, inseguimenti, esplosioni alla James Bond.

A me dunque era servita, quella partita, a sentirmi un po’ di più nel mondo dei “grandi”. Ma ora mi dico: non è un bel paradosso che qualcosa di molto personale, vissuto in modo personale, ci faccia sentire al tempo stesso affratellati, uniti nella gioia collettiva di un popolo? Sì, è un gratificante paradosso. Ma allora ci avviciniamo molto all’altro gran paradosso (non meraviglioso, ma obbligato, triste, drammatico) di come abbiamo vissuto o l’isolamento da Covid19, e di come cerchiamo di uscirne. L’isolamento forzato ha spinto un po’ tutti a rinchiudersi nei propri beni-rifugio e nelle proprie pratiche-rifugio: chi era abituato a leggere, ha letto di più; chi ama sentire musica l’ha fatto di più, come la cucina e la visione in streaming di film messi a disposizione delle cineteche.

Poi, seconda tappa: per la facilità di scambiarsi le esperienze (al telefono, via mail, whatsapp e social…), queste nostre esperienze (spesso esperienze da privilegiati: non a tutti è stato concesso, tantissimi hanno lavorato per noi rischiando e lasciando la vita, altri hanno perso il lavoro e ne hanno pagato conseguenze non solo economiche, ma anche psicologiche e spirituali) sono state molto condivise, seppure a distanza. Il cortocircuito era questo: vivo al meglio i miei interessi, ciò che mi piace, e sono felice che possa piacere anche ad altri. Le religioni hanno dato vita a momenti comuni di preghiera, ma a volte hanno ceduto al fascino di esibire le preghiere proprie, a colpi di Watt e decibel, irrompendo nel panorama acustico delle città silenziose. Ognuno era sé stesso “un po’ di più”, e al tempo stesso desideroso di far parte di una grande famiglia, con discrezione o con la forza, spinto anche da alcuni spot istituzionali un po’ didascalici.

Una grande famiglia ha un limite: chi è dentro, è dentro; chi è fuori, è escluso, o almeno si sente come tale. In una fase drammatica come l’emergenza Coronavirus le contraddizioni sono saltate subito all’evidenza (altre le scopriremo nei prossimi mesi), e qualcuno si è reso conto di essere ai margini. Anche dopo la “sbornia da tifoso” andò presto a finire allo stesso modo. Momenti bellissimi, destinati a non durare. In momenti del genere ci troviamo di colpo a contatto con un prossimo quasi sconosciuto, ed è in questo contatto comunitario, impensato fino a poco prima, che scopriamo come ognuno e ognuna di noi è fatto. Come sono fatti coloro che non soccorrono l’uomo aggredito dai briganti; come è fatto il samaritano. Perché il prossimo è chi ci troviamo di fronte; in queste occasioni viene fuori chi siamo.

Nostalgici? Casalinghe che si scoprono tifose in una notte? Aspiranti allenatori? Ci siamo scoperti noi stessi 50 anni fa davanti a immagini in bianco e nero che, anni dopo, abbiamo visto a colori in cassetta o dvd o sul web, perché a colori erano state le riprese televisive. Chissà quali realtà scopriremo di noi stessi, come siamo stati e come ci siamo comportati durante l’emergenza: forse in questi giorni vediamo noi stessi ancora in bianco e nero. O forse «come in uno specchio, oscuramente».