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Nelson Mandela. Quel 12 giugno 1964…

«Ho un sogno, quello di una società democratica e libera in cui tutte le persone possono vivere insieme, in armonia e con pari opportunità. Un sogno che spero di poter raggiungere nella mia vita. Se necessario, per questo sogno sono pronto a morire», sono alcune delle frasi dette da Nelson Mandela alla Corte che quel giorno lo condannerà al carcere a vita. 

Era il 12 giugno del 1964 quando, già in carcere da due anni, Mandela riceve la sua condanna: il carcere a vita. 

Una sentenza giunta al termine di un processo, denominato di «Rivonia» (il sobborgo di Johannesburg nel quale si riunivano Mandela e gli altri leader uniti dalla lotta contro l’apartheid). Mandela e i suoi compagni vengono arrestati in una fattoria, quella di Liliesleaf di proprietà di Arthur Goldreich nel 1962. I leader dell’African National Congress sono accusati di «lotta armata e sabotaggio».

Il Congresso nazionale africano (il più importante partito politico sudafricano) guidava la lotta contro il regime di segregazione razziale imposto alla popolazione nera del Sud Africa. 

Mandela per questa sua militanza, e per la guida del partito, trascorrerà in carcere ben 26 anni. 

Nel discorso pronunciato di fronte ai giudici del tribunale prima del verdetto, disse: «Più potente della paura per l’inumana vita della prigione è la rabbia per le terribili condizioni nelle quali il mio popolo è costretto a vivere fuori dalle prigioni di questo paese. Non ho dubbi che i posteri si pronunceranno per la mia innocenza, come non ho dubbi che i criminali che dovrebbero essere portati di fronte a questa Corte sono i membri del governo».

«Tra i grandi meriti di Mandela – ricordava nel 2018 il professore Paolo Naso per i cent’anni dalla nascita del leader africano su questo sito – vi è quello di essersi sottratto a un uso ideologico della sua storia e della causa alla quale ha dedicato la vita. Quando era ancora in carcere – ricordiamo che nel 1962 fu arrestato e poi condannato all’ergastolo per reati di azione armata non connessi a fatti di sangue – immaginò un programma politico che superava i confini dell’ortodossia marxista e faceva propri politiche e principi liberaldemocratici. Aderì all’African National Congress – la principale forza di opposizione al regime – quando l’organizzazione perseguiva ancora una strategia nonviolenta, e fu solo dopo la strage di 69 attivisti nel 1960 che lui e gli altri leader dell’organizzazione decisero di abbandonare la filosofia e i metodi gandhiani. Seguì una stagione terribile, in cui il potere bianco si macchiò di centinaia di attentati contro personalità dell’opposizione e di una delle stragi più gravi compiute contro civili inermi: accadde nella township a Soweto il 16 giugno del 1976, quando le forze militari sudafricane uccisero almeno 200 manifestanti. La foto di una coppia di genitori che reggevano in braccio il cadavere del figlio di pochi anni fece il giro del mondo e suscitò un’eccezionale ondata di mobilitazione contro l’apartheid sudafricano. Ma il regime era ancora forte e rifiutò ogni negoziato». 

Mandela si era formato nelle scuole metodiste; nella sua prigionia era stato accompagnato in carcere da un cappellano metodista: «benché incarcerato – ricordava ancora Naso –, era ben consapevole del ruolo del Consiglio ecumenico delle Chiese nelle campagne di boicottaggio contro il razzismo sudafricano e nel sostegno all’opposizione. Insomma aveva tutti gli elementi per comprendere la potenzialità di quel cambiamento teologico che toglieva ogni legittimità morale a un regime ormai in declino».