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La “commessa del secolo”: soldi, armi e occhi chiusi?

«L’operazione per la vendita delle armi all’Egitto non è ancora conclusa». Con queste parole, mercoledì 10 giugno il ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, ha frenato un accordo che, secondo diverse fonti di stampa, sembrava molto vicino alla chiusura. Si tratta della cosiddetta “commessa del secolo”, la fornitura di armamenti al governo del Cairo per un valore compreso tra i 9 e gli 11 miliardi di euro. Al centro dell’attenzione, in particolare, sono due fregate multiruolo di classe FREMM, la la Spartaco Schergat e la Emilio Bianchi, costruite per la marina militare italiana ma ora destinate all’Egitto, per un valore di circa 1,2 miliardi di euro. C’è poi, secondo le informazioni oggi disponibili, una seconda parte, che riguarda la fornitura di altre quattro fregate multiruolo prodotte da Fincantieri-Leonardo, venti pattugliatori che potrebbero essere costruiti nei cantieri egiziani, 24 caccia multiruolo Eurofighter e altrettanti aerei addestratori M346.

Alla luce di un accordo come questo, l’Egitto, che già oggi è il principale cliente dell’industria bellica italiana con licenze per 870 milioni di euro nel solo 2019, distanzierebbe tutti gli altri, rendendo sempre più stretta la propria relazione economica e militare con il nostro Paese.

Per rendersi conto della dimensione della commessa, è opportuno ripartire dai dati anticipati a metà maggio dalla Rete italiana per il Disarmo sulla vendita delle armi italiane, basati sulla relazione governativa annuale sull’export di armamenti inviata al Parlamento. Un documento richiesto dalla Legge 185/90 che regola la vendita estera dei sistemi militari italiani e dal quale emerge che nel corso del 2019 «si sono registrate autorizzazioni di movimenti in uscita dall’Italia di materiale d’armamento per un controvalore di 5.174» e consegne definitive «per complessivi 2.899 milioni di euro (2.388 milioni per licenze singole e 511 milioni per licenze globali di progetto)».

Oltre che per le sue dimensioni, questa commessa non può essere considerata “ordinaria amministrazione” anche per il soggetto con cui si conclude, ovvero l’Egitto di Abdel Fattah Al Sisi.

«Per quanto riguarda le autorizzazioni all’esportazione di materiali di armamento che riguardano i Paesi della Nato e dell’Unione Europea, solitamente queste vengono rilasciate dall’Autorità nazionale Uama, l’Unità per le autorizzazioni dei materiali di armamento che dipende dal ministero degli Esteri», spiega Giorgio Beretta, analista di Opal, l’Osservatorio Permanente sulle Armi Leggere e Politiche di Sicurezza di Brescia. «Per i paesi extra-Nato o che non fanno parte dell’Ue, invece, di solito c’è una consultazione con il ministero degli Esteri, il ministero della Difesa, talvolta anche con il Ministero dello Sviluppo economico».

Proprio alla luce dell’eccezionalità di questa operazione, la Rete Italiana per il Disarmo, insieme alla Rete della Pace e ad Amnesty International hanno lanciato la campagna #StopArmiEgitto, chiedendo di fermare l’ipotesi di nuove forniture militari all’Egitto di al-Sisi e un dibattito aperto in Parlamento.

In questo caso, quindi, stiamo parlando di un Paese che non fa parte né della Nato né, naturalmente, dell’Unione europea, e già questo richiede cautela. C’è altro?

«Qui non stiamo parlando di una fornitura di alcuni aerei o di alcune navi: stiamo parlando della più grossa commessa militare che verrebbe rilasciata dall’Italia a partire da questo nuovo secolo. Quindi questo riguarda in modo più ampio l’indirizzo di politica estera e di difesa dell’Italia e la legge 185 del 90 che regolamenta la materia dell’esportazione di armamenti dice espressamente che l’esportazione di armamenti deve essere conforme alla politica estera e di difesa dell’Italia. Con un ulteriore addentellato: essendo appunto una possibile commessa e un ordinativo che riguarderà non solo questo governo ma anche i governi successivi, quindi che impegna l’Italia per diversi anni, non si può rubricare questa materia a ordinaria amministrazione sulla quale può decidere l’autorità nazionale Uama presso il ministero degli Esteri. C’è un impegno effettivo dell’Italia e a questo punto è assolutamente necessario un passaggio parlamentare. Qui si tratta di impegnare il nostro Paese nella produzione e nell’esportazione all’Egitto di questi sistemi militari per diversi anni. Fingere che questa questione sia di ordinaria amministrazione, e poi pensare di poter risolvere così anche soltanto in una discussione del Consiglio dei ministri, è totalmente al di fuori del concetto della legge».

Nella vendita di armi all’Egitto c’è innanzitutto un problema strategico: Il Cairo è impegnato in Egitto a sostegno di Khalifa Haftar, mentre l’Italia sostiene il governo di Fayez al-Sarraj, riconosciuto anche dalle Nazioni Unite. Non c’è contraddizione?

«Inviare armamenti all’Egitto, che di fatto offre le proprie basi militari alle truppe di Haftar, significa sostenere una parte del conflitto e soprattutto armare un Paese che sostiene un conflitto armato. Questo contrasta con la legge italiana che vieta l’esportazione di armamenti verso Paesi la cui politica contrasti con i principi dell’articolo 11 della Costituzione, che recita  “L’Italia ripudia la guerra come strumento di risoluzione delle controversie internazionali”».

E poi c’è la vicenda di Giulio Regeni, il ricercatore rapito e ucciso in Egitto nel 2016. Anche questo è un fattore?

«Dovrebbe esserlo, anche perché, sempre dal punto di vista della legge alla quale non possiamo che appellarci, è vietata l’esportazione di armamenti verso Paesi dove si sono accertate gravi violazioni di diritti umani. E qui abbiamo almeno due risoluzioni del Parlamento europeo, una del dicembre del 2018 e un’altra dell’ottobre del 2019, che espressamente segnalano le violazioni dei diritti umani in Egitto. Una, addirittura, quella del 2019, è titolata appunto a Giulio Regeni, di cui richiama il caso. Proprio questo dovrebbe invitare il nostro governo a moltissima attenzione e a moltissima precauzione prima di effettuare esportazione di armamenti verso l’Egitto. Fornire sistemi militari a un Paese che è impegnato in un conflitto armato attivamente e che di fatto viola i diritti umani e le libertà democratiche, oltre a incarcerazioni e torture, è un espresso e chiaro sostegno a questo regime. È una questione molto pesante che non si può sottovalutare.»

Che cosa ci dice questo caso specifico sulla nostra politica di esportazione di armamenti?

«Ci dice prima di tutto che le autorizzazioni alle esportazioni di sistemi militari sempre meno rispondono al dettato e ai principi della legge 185 del 1990 che regolamenta questa materia e sempre più invece sembrano rispondere a interessi economici e industriali. Insomma, dove riusciamo a piazzare un po’ di armi cerchiamo di piazzarle, detto molto semplicemente. Non è un caso che l’Egitto sia il principale destinatario delle autorizzazioni all’esportazione del 2019, e che nello stesso tempo la Turchia, che è in conflitto con l’Egitto proprio in Libia, sia il principale destinatario delle consegne effettive di armamenti dell’Italia, con oltre 338 milioni di euro. Stiamo praticamente armando tutti i regimi più autoritari del Medio Oriente, dalla Turchia all’Egitto, a tutti i Paesi arabi, Arabia Saudita, Kuwait, Emirati Arabi Uniti, Qatar, senza alcuna prospettiva di politica estera e di difesa. Il principio che sta diventando dominante, e che come Rete Disarmo e come Opal Brescia denunciamo, è proprio questo: mentre tutta questa materia dovrebbe rispondere alla politica estera e di difesa dell’Italia, sta sempre invece più rispondendo a dinamiche e interessi di tipo economicistico, o più precisamente di tipo industriale».

C’è rischio che ora, con la necessità e l’urgenza di stimolare la ripresa economica del nostro Paese, si diventi ancora più disinvolti in questo senso, e si proponga questo settore come un volano di ripresa?

«Questo rischio è fortissimo. Ma il punto è che l’Italia autorizza, e poi al massimo esporta se riesce, cinque miliardi di euro di armamenti all’anno, ma nello stesso arco di tempo esportiamo 146 miliardi di euro di merci in generale. Dal punto di vista economico, finanziario e industriale l’export di armamenti viene molto enfatizzato e viene considerato strategico, quando di fatto è lo 0,5% del nostro export. Tanto per fare un esempio, l’Italia esporta in utensileria e ferramenta molto di più di quello che esporta in materiali militari. Certo, è una buona notizia, ma il problema è che i produttori di utensileria e ferramenta se la devono giocare nel mercato internazionale in base alla loro capacità di produzione, mentre l’esportazione dei sistemi militari non solo spesso è pericolosa, perché va a finire nelle zone di maggior tensione del mondo, ma addirittura ha il sostegno statale. Invece di rivitalizzare l’economia a tutto campo, soprattutto in quei settori che davvero sono importanti anche nei mercati internazionali, si sta pensando di rilanciare l’esportazione di materiali militari, e questa vendita all’Egitto ne è un esempio, proprio perché questo riesce a trovare il sostegno da parte dei vari governi».

I Paesi verso cui esportiamo più armi sono anche quelli da cui importiamo più materie prime per il mercato dell’energia, considerato spesso un altro settore strategico e parte integrante della politica estera italiana. Siamo di fronte a uno scambio?

«Sì, ed è un grosso problema. Mettere sullo stesso piano le forniture militari con le forniture di altri sistemi non può essere fatto. Non è un caso che le forniture militari non rientrino nel trattato internazionale del commercio del WTO, e invece vengono regolamentate da un altro trattato, quello sul commercio delle armi, proprio perché sono materiali di natura diversa e non si possono mettere sullo stesso piano. Se proprio si volesse fare uno scambio lo scambio, allora dovrebbe contemplare armi in cambio di diritti umani, di democrazia, del rispetto delle norme internazionali. Questo è l’unico scambio che si può accettare, tutto il resto fa parte di quella logica affaristica di cui si parlava. Purtroppo, quello che stiamo vedendo è proprio un tentativo di rilancio dell’economia italiana partendo dal solito volano, l’economia militare».

Ci sono alternative, anche in termini industriali?

«Posso dire questo: ci siamo accorti, proprio durante la crisi da COVID-19, che non soltanto mancavano le mascherine, i kit sanitari, le tuniche per i medici. Soprattutto mancavano apparecchiature polmonari, apparecchiature medico-sanitarie di cui l’Italia ha fortissimo bisogno e che importiamo ogni anno per 7 miliardi di euro. Tra l’altro, l’Italia ne esporta per altrettanti 7 miliardi, ma ne importa per 7 miliardi e mezzo. Bene, avremmo la possibilità di riconvertire gran parte della nostra industria militare in industrie di produzione medico-sanitaria e avremmo un mercato eccezionale in tutto il mondo senza il bisogno di alimentare guerre e fornire armi a dittatori».