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Resiliente…mente

L’esperienza della quarantena ha inevitabilmente prodotto anche effetti positivi e importanti spunti di riflessione. La prova di resilienza fatta in questo periodo così faticoso, indubbiamente ci ha obbligati a riflettere sul prima, durante e dopo.

Se, come credo di poter sostenere sintetizzando, la resilienza può essere intesa come la capacità di tirare fuori il meglio dal peggio, credo che qualcosa di utile e straordinario sia accaduto. Tutti, con modalità e intensità diversa, abbiamo sperimentato la resilienza. A esempio, proprio grazie alle limitazioni imposte dai vari decreti, abbiamo scoperto di essere passati dalla chiusura degli spazi aperti all’apertura degli spazi chiusi

Quando parlo di chiusura degli spazi aperti, mi riferisco alla nostra capacità relazionale ante-Coronavirus; mi riferisco a quando eravamo liberi di andare ovunque senza incontrare nessuno; mi riferisco a quando avevamo occhi e sguardi solo per lo schermo del nostro cellulare, per cui qualsiasi luogo di transito come autobus, treni, metropolitane, sale d’attesa, ascensori, bar, ristoranti, pizzerie, erano scanditi da una presenza desertica dove nessuno parlava con nessuno; ognuno era impegnato, nel rapporto uno a uno, con il proprio cellulare. Oserei dire che dopo romanticismo, illuminismo e decadentismo, siamo riusciti a creare il capochinismo

Le scene che mi hanno colpito di più sono state quelle nei luoghi di incontro, che talvolta avevano connotazioni di intimità, come bar, ristoranti, pizzerie. Un tempo, sedendosi al tavolo di un ristorante, in attesa che arrivasse ciò che avevamo ordinato, la prassi era chiacchierare e mangiare grissini. Sono fallite un’infinità di aziende che producevano grissini! Perché nessuno li mangiava più, la gente si sedeva a tavola, non chiacchierava e non mangiava grissini, ma si catapultava con la testa nello schermo del telefonino e sui grissini calava la polvere.

L’era in cui eravamo chiusi negli spazi aperti, era l’era dell’altrove, dove l’altrove aveva sempre priorità rispetto al “qui e ora”! Se si voleva parlare con qualcuno era necessario sperare di averne il numero di cellulare, essere distante qualche isolato e imbastire una “comunicazione” a colpi di messaggi.

Di converso e per causa di forza maggiore, nel periodo della reclusione domestica, gradualmente siamo approdati all’era dell’apertura degli spazi chiusi! Con ciò mi riferisco alla capacità di relazione sviluppatasi spontaneamente nei tempi dettati dal Coronavirus. Circostanza in cui, pur essendo obbligati in casa, abbiamo mostrato la capacità di incontrare chiunque. I balconi sembravano tutti affluenti di un’unica grande piazza in cui “incontrarsi e scambiare” vissuti. 

G. García Marquez ha scritto L’amore ai tempi del colera, noi potremmo scrivere “La socialità ai tempi del Coronavirus”! In questo libro si parlerebbe di gente affacciata a un balcone che comunica, che si offre, che regala sguardi e sorrisi, che racconta storie, che legge poesie, che balla, che ascolta musica, che celebra la vita in tutti i modi possibili, suonando mestoli e cantando canzoni. Si racconterebbe di un anonimo quartiere di periferia che si trasforma in una corte familiare, dove gli sconosciuti iniziano a salutarsi per strada, dove ogni persona è rappresentata da due occhi nascosti dietro a una mascherina.

Ho visto gente incontrare altra gente che non aveva mai visto, e dirsi “Buongiorno”, “Buonasera”, come a dire “sono ancora viva”, “sei ancora vivo”, “siamo ancora vivi”.

Lo stato di quarantena e le sue limitazioni, forse ci aiuteranno a guarire da un virus molto più potente del Covid 19, un virus che potremmo chiamare “V.A.I. 2000”: il Virus dell’Autoisolamento Involontario, che ci siamo scambiati a colpi di indifferenza piuttosto che a colpi di tosse, da circa vent’anni.

Adesso che iniziamo nuovamente a prender possesso degli spazi comuni, speriamo di ricordarci di alzare la testa, di sollevare lo sguardo dal telefono, di guardare verso e con occhi nuovi. Di incontrare, con desiderio e gratitudine, quelle stesse persone che nell’incertezza e nella paura hanno imparato a parlarsi e riconoscersi dai balconi.