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Schiavitù, l’eredità che non passa

Il 5 giugno 2020, mentre tutti gli Usa ribollivano di proteste contro la violenza razzista della polizia per l’assassinio di George Floyd a Minneapolis, Bruce Springsteen ha aperto il suo programma sulla radio SyriusXM con una delle sue canzoni più controverse: American Skin (41 Shots), sull’assassinio di un giovane immigrato africano, Amadou Diallo, crivellato con 41 colpi di arma da fuoco da una squadra di poliziotti di New York: «Questa canzone dura quasi otto minuti», ha aggiunto: «il tempo che il poliziotto [Derek Chauvin] ha tenuto il ginocchio sul collo di George Floyd». Springsteen ha definito questo delitto come un “linciaggio visuale”, e lo ha sottolineato mandando in onda Strange Fruit, la canzone di Billie Holiday e Nina Simone sui linciaggi nel Sud. «Abbiamo 40 milioni di disoccupati – ha detto –, e più di centomila cittadini sono morti per il Covid-19, con una risposta debole e insensibile da parte delle istituzioni Incombe ancora su di noi, generazione dopo generazione, il fantasma della schiavitù, il nostro peccato originale e il dilemma irrisolto della società americana».

L’uccisione di George Floyd è solo uno della lunga serie di episodi di violenza da parte della polizia che colpiscono in modo sproporzionato afroamericani, latini, nativi. Nel 2020, le persone uccise a colpi di arma da fuoco dalla polizia negli Stati Uniti sono 329, una media di almeno due al giorno. Non è chiaro se la statistica comprenda anche quelli uccisi con altri mezzi, come a esempio un ginocchio sul collo o una presa di lotta libera sul collo (come Eric Garner a New York – o Radio Raheem nel film di Spike Lee, Fai la cosa giusta). Gli afroamericani sono il 13% della popolazione degli Stati Uniti, ma sono il 24% delle 231 vittime di cui è nota l’identità “razziale” – e la sproporzione si fa ancora più drammatica nei grandi contesti urbani, che peraltro sono i più visibili.

La violenza della polizia è solo un aspetto particolarmente traumatico dell’eredità della schiavitù di cui parla Springsteen, che si è estesa e radicata in una presenza endemica e strutturale del razzismo nella società e nelle istituzioni (non va dimenticato che il gruppo con la percentuale più alta sono i nativi americani, e che anche i latinos hanno una quota sproporzionata di vittime). La vicenda della pandemia, in cui le minoranze hanno subito una quota assolutamente sproporzionata di vittime, non è che la conseguenza di una sistematica discriminazione nei servizi sanitari in cui il razzismo si intreccia con i rapporti di classe in una società sempre più diseguale e polarizzata in termini di reddito e potere. 

Alla storia della schiavitù e del razzismo si è intrecciata, specialmente dopo le guerre del Golfo e l’11 settembre, la sindrome bellica e militarista anch’essa fortemente radicata nelle istituzioni. Le risorse sempre più abbondanti messe a disposizione dei tutori della “legge e ordine” e della “sicurezza nazionale” sono state usate per armare la polizia le letteralmente come un esercito in guerra. Lo Homeland Security Program ha incentivato la riassegnazione alla polizia di mezzi militari usati e ha dato ai dipartimenti di polizia i fondi necessari per acquistare “armi e veicoli da guerra”. Le forze di polizia che sono scese in campo durante la ribellione dei giorni scorsi a Minneapolis erano armate con «un arsenale di cui sarebbe andato orgoglioso qualunque piccolo esercito: blindati, elicotteri da guerra, proietti di gomma e di legno, bombe a mano, bombole di gas lacrimogeno» (Tod Nolan, ricercatore, ex poliziotto). Fin dagli anni ‘60, Stokely Carmichael e i militanti del Black Power parlavano della polizia nei ghetti come di un esercito d’occupazione; oggi è quasi istintivo, per poliziotti armati come in guerra, sentirsi in guerra. Durante le proteste seguite all’assassinio di Michael Brown a Ferguson, Missouri, nel 2014 la Guardia nazionale usava «un linguaggio altamente militarizzato, parlando di “forze nemiche” e di “avversari” a proposito di manifestanti che sono cittadini. I documenti che davano le direttive della missione distinguevano, nella folla che la Guardia nazionale avrebbe incontrato, fra “forze amiche” e “forze nemiche” – delle quali ultime facevano parte, a quanto pare, i “manifestanti in genere”» (J. Walters, The Guardian, 14 aprile 2015).

Per questo è particolarmente significativo il fatto che proprio membri della polizia di Ferguson siano stati fra i tanti che, dopo la morte di George Floyd, si sono inginocchiati o hanno espresso in altro modo la solidarietà con la comunità nera e con le vittime. Nonostante la sproporzionata e opportunistica insistenza dei media (anche alcuni fra i più insospettabili in Italia) sulla “violenza”, i “saccheggi”, l’”odio” che si sono mischiati alle manifestazioni di protesta, è emerso chiaramente che il problema non erano loro ma la polizia stessa. 

Ha scritto Federico Rampini su La Repubblica che i poliziotti americani sono «ipersindacalizzati e quindi iperprotetti». Se questo fosse vero, i nostri metalmeccanici della Cgil dormirebbero fra due cuscini. L’impunità dei poliziotti americani non deriva dal fatto che hanno un sindacato, ma dal fatto che questo sindacato è sostenuto e incoraggiato dalla controparte stessa, dalle gerarchie, dal sistema giudiziario, dalle istituzioni politiche, e non li protegge dai datori di lavoro ma dalla popolazione che loro dovrebbero proteggere. Perciò un esito delle proteste di questi giorni è che questa impunità comincia a sgretolarsi. Da un lato, gruppi forse minoritari ma significativi di poliziotti dicono basta a questi crimini commessi in loro nome. Dall’altro, le istituzioni cominciano a rendersi conto di dov’è che bisogna intervenire. Minneapolis ha sciolto il Dipartimento di polizia, riconoscendo che Derek Chauvin non è una “mela marcia” ma la normalità; New York e altre città si preparano a tagliare i fondi alla polizia. Qualcosa si muove. Ma c’è voluto un morto e un’ondata di rabbia per ottenere questi, per ora minimi ma incoraggianti, segnali di cambiamento.