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Yemen, la coperta è sempre troppo corta

Conferenza dei donatori, obiettivo fallito. È possibile riassumere in questo modo il risultato del vertice virtuale di raccolta fondi voluto dall’Arabia Saudita per sostenere la popolazione yemenita, su cui pesano oltre cinque anni di guerra civile. Alla vigilia dell’incontro, si prevedeva di raccogliere due miliardi e 400 milioni di dollari, ma al termine della conferenza manca all’appello oltre un miliardo, un grave fallimento di fronte a un Paese in cui in cui la popolazione bisognosa di assistenza raggiunge l’80% del totale.

Secondo le Nazioni Unite, che ritengono quella yemenita la più grande emergenza umanitaria del mondo, se non si dovessero raccogliere più fondi, ci troveremo di fronte a una situazione “terribile” entro la fine dell’anno. Il Segretario Generale, Antonio Guterres, aveva parlato pochi giorni fa del bisogno di un’azione urgente per evitare la chiusura, entro poche settimane, di 30 dei 41 programmi finanziati dalle Nazioni Unite. Inoltre, quanto ottenuto finora sono soltanto promesse di donazione, che andranno poi tradotte in finanziamenti reali, un passaggio che spesso crea nuove discrepanze.

Al termine della Conferenza, sono stati trenta i Paesi che si sono impegnati a finanziare gli aiuti nello Yemen. In prima fila proprio l’Arabia Saudita, che guida la coalizione internazionale che sostiene il governo internazionalmente riconosciuto di ‘Abd Rabbih Mansur Hadi, ma che allo stesso tempo dal marzo del 2015 colpisce il Paese con bombardamenti e azioni militari contro i ribelli Houthi, sostenuti in modo più o meno diretto dall’Iran.

Riyadh ha promesso 500 milioni di dollari, a cui ha dichiarato di voler aggiungere 200 milioni attraverso programmi di aiuti sauditi, non collegati alle Nazioni Unite. Tuttavia, anche questi aiuti sono stati soltanto annunciati in più di un’occasione, ma mai spesi realmente.

Tra gli altri Paesi donatori, spiccano il Regno Unito, con 200 milioni, e la Germania, con 140.  Nessun aiuto invece dagli Stati Uniti, che pure erano tra i promotori della conferenza, ma che hanno deciso alcune settimane fa di sospendere i fondi stanziati dall’agenzia Usaid, lamentando l’impossibilità di una corretta valutazione sul fatto che i fondi vengano spesi in maniera corretta, soprattutto nelle aree nord occidentali, da anni sotto il controllo degli insorti Houti, con cui il dialogo è ridotto al minimo.

Nessun impegno anche da parte degli Emirati Arabi Uniti, una delle principali potenze esterne impegnate nel conflitto yemenita, in parte a sostegno del governo di Hadi e in parte a supporto dei separatisti del sud, che fanno capo ad Aidarus al-Zoubaidi e che hanno dichiarato l’autogoverno nel sud, con capitale Aden.

Allo stesso modo, è stato piuttosto limitato il sostegno da parte degli altri Stati arabi, che ritengono impossibile muoversi in un contesto definito “troppo inquinato da interferenze esterne”. Anche se le Nazioni Unite hanno sottolineato più volte che gli interventi umanitari sono rivolti a tutto il Paese, indipendentemente da chi controlli il territorio, le obiezioni e blocchi hanno quindi impedito di raggiungere l’obiettivo, che era comunque meno ambizioso di quello del 2019, quando furono 3,2 i miliardi di dollari raccolti.

Al netto delle numerose obiezioni sollevate, è chiaro che sulle promesse di aiuti influisca anche la crisi economica di molti dei Paesi donatori, dovuta alle conseguenze della pandemia di Covid-19. A questo proposito, in Yemen siano stati registrati circa 400 casi di positività, ma la capacità di test e soprattutto di cura nel Paese sono ridotte al minimo. Oggi, infatti, appena la metà delle strutture sanitarie sono operative, e molte di queste non hanno neppure una fornitura elettrica affidabile. Inoltre, fuori dalle città la situazione diventa ancora più difficile, anche se il 60% degli yemeniti vivono in aree rurali.

In occasione della Conferenza virtuale dei donatori in Yemen, 24 organizzazioni umanitarie avevano lanciato l’allarme su come la perdita di finanziamenti e le altre difficoltà nel Paese avrebbero messo a rischio ulteriori 5,5 milioni di persone che quest’anno rischieranno di non accedere agli aiuti di base come cibo, denaro e acqua potabile. Ulteriori tagli di fondi, si legge nel comunicato, “si tradurrebbero in riduzione dei servizi sanitari come le cliniche mobili e della capacità delle organizzazioni di fornire sistemi idrici per le comunità, proprio mentre persiste la minaccia di un picco di colera e si combatte la lotta contro la diffusione di Covid-19”.

Eppure, nemmeno la pandemia ha fermato gli scontri sul terreno in questi mesi, in particolare nel governatorato di Mareb e con i secessionisti del sud, mentre resta sospesa la situazione di Hodeidah, il principale porto del Paese e al centro dell’accordo di Stoccolma del dicembre 2018, in larga parte disatteso. Oggi sono 8 milioni e mezzo le persone che stanno vedendo dimezzati i loro aiuti alimentari, mentre un milione e mezzo di famiglie dipendono interamente dall’assistenza alimentare per sopravvivere, su un totale di 20 milioni di persone che hanno bisogno di qualche forma di assistenza alimentare per non dover contrarre debiti per l’acquisto di cibo.

Ancora una volta, come già successo in passato, non sembrano esserci progressi verso una soluzione politica del conflitto, un obiettivo che non faceva parte della conferenza ma che è stato ribadito da molti dei Paesi intervenuti. Eppure, ancora una volta, il dialogo sembra non portare da nessuna parte, anche se sono in molti a credere che l’Arabia Saudita voglia trovare una via d’uscita da una guerra che è diventata un problema apparentemente senza soluzione.