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Siria. Presto un ritorno a Ginevra?

Il governo siriano e le principali forze di opposizione potrebbero presto ritornare a sedersi al tavolo negoziale di Ginevra, dove da anni si cerca di trovare un’intesa per una nuova Costituzione del Paese, che permetta di dare una soluzione politica a una guerra cominciata più di nove anni fa.

Martedì 19 maggio, l’inviato speciale delle Nazioni Unite per la Siria, Geir Pedersen, aveva lanciato un appello affinché Russia e Stati Uniti avviino colloqui volti a trovare una soluzione al conflitto nel paese mediorientale, definendo inoltre “attori chiave” l’Iran e la Turchia, impegnati rispettivamente a sostegno del governo e dell’opposizione.

Il giorno dopo, i rappresentanti dei fronti in guerra hanno risposto positivamente alla richiesta di Pedersen, affermando di voler riprendere il dialogo a Ginevra. L’inviato delle Nazioni Unite ha chiarito che la ripresa del dialogo potrà avvenire soltanto in presenza, quindi quando la situazione sanitaria globale sarà sotto controllo, escludendo qualsiasi ipotesi di un incontro virtuale del Comitato costituzionale.

Anche se la situazione sul terreno si è trasformata profondamente negli ultimi quattro anni e mezzo, sin dall’intervento militare russo a sostegno di Bashar al-Assad, lo schema da cui si ripartirà a Ginevra è lo stesso stabilito nel 2015 dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite con la risoluzione 2254 del dicembre 2015. In quel documento si esprimeva il sostegno a «un processo politico guidato dai siriani che sia facilitato dalle Nazioni Unite e che, entro sei mesi, istituisca un governo attendibile, inclusivo, non settario e che stabilisca un programma e un procedimento per redigere una nuova costituzione», e si auspicavano «elezioni libere e giuste, conformi alla nuova costituzione, che dovranno tenersi entro 18 mesi e amministrate sotto la supervisione delle Nazioni Unite, in modo che siano soddisfacenti per il governo e che siano caratterizzate dai più alti criteri internazionali di trasparenza e affidabilità, con la partecipazione di tutti i Siriani, inclusi i membri della diaspora».

Finora, quelle intenzioni sono state del tutto disattese da ogni parte in causa, come sottolineato dallo stesso Pedersen, secondo cui «ci sono state troppe occasioni perse per passare dal conflitto a un percorso politico» e «quei momenti persi sono stati seguiti da una nuova violenza e da un rafforzamento delle posizioni tra attori regionali e internazionali».

Dopo anni di divisioni, anche su questioni formali come la sua composizione, la prima seduta della Commissione costituzionale è avvenuta soltanto il 30 ottobre 2019, proprio mentre nel nord-est siriano si completava l’invasione turca nelle aree controllate dalle Sdf a maggioranza curda, ponendo un nuovo grave ostacolo nel percorso verso una soluzione politica che ancora oggi sembra lontanissima.

Complice forse la crisi sanitaria globale, oggi le violenze nelle zone più conflittuali sembrano essersi ridotte. Questo è vero in particolare per la regione di Idlib, terreno di scontro tra Russia e Turchia all’inizio del 2020. Qui si incrociano le due più importanti vie di comunicazione del Paese, la M4 e la M5, che connettono la costa mediterranea con la strada per Aleppo e Damasco. I combattimenti in quest’area hanno perso intensità sin da marzo, quando Russia e Turchia hanno sottoscritto un cessate il fuoco. Inoltre, i due Paesi sono ogni giorno più impegnati nel sostenere gli opposti fronti del conflitto civile in Libia, ormai diventato a tutti gli effetti una guerra per procura che ricalca in parte proprio il disastroso modello siriano. Anche nel nord-est nell’ultimo mese è crescita la cooperazione tra Russia e Turchia, anche se i problemi del passato rimangono del tutto attuali.

Tuttavia, avverte Pedersen, la situazione potrebbe precipitare in qualsiasi momento, e a farne le spese come sempre sarebbe la popolazione siriana, che da nove anni paga il prezzo di un conflitto che sempre più è una questione di élite.

L’inviato speciale delle Nazioni Unite ha dichiarato di essere rimasto colpito dalla volontà di tutte le fazioni in campo di voler dialogare con le Nazioni Unite, e che tutte le parti sono realmente preoccupate sia per la situazione attuale che per il futuro della Siria, ma ha chiarito che “la crisi in Siria non verrà risolta solamente da una nuova Costituzione”. Entrambi i Presidenti del Comitato, Nabil al-Kuzbari per conto del Governo del Presidente Bashar al-Assad e Hadi al-Bahra in rappresentanza delle opposizioni, hanno riaffermato a Pedersen l’importanza dell’assenza di precondizioni per realizzare passi avanti significativi nella scrittura della nuova Carta del Paese arabo.

Tutto bene, quindi? Non proprio, perché al netto delle scarne dichiarazioni congiunte, la divisione tra i due attori-chiave del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, Stati Uniti e Russia, rimane profonda. Subito dopo le parole di Pedersen, la Rappresentante permanente alle Nazioni Unite per gli Stati Uniti, Kelly Craft, ha dichiarato che «Dobbiamo identificare la campagna di disinformazione di Russia e Cina», aggiungendo che «In seno al Consiglio, quando discutiamo di qualcosa sulla Siria, non possiamo fare un solo passo senza che Russia e Cina provino a reprimere le voci di altri paesi».

Per contro, l’ambasciatore russo Vassily Nebenzia ha chiesto la rimozione delle «soffocanti sanzioni unilaterali» imposte dagli Stati Uniti e da altri Paesi che impediscono alla Siria di accedere a medicinali e strumentazione medica per contrastare il COVID-19, e ha criticato la presenza dell’esercito statunitense nel nord-est della Siria, definita «illegale». Nebenzia ha affermato che i siriani devono avere la possibilità di affrontare in indipendenza minacce come la pandemia, il terrorismo, l’occupazione straniera e il ripristino dell’unità e dell’integrità territoriale del paese. «La comunità internazionale dovrebbe fornire assistenza umanitaria, favorire la ricostruzione postbellica della Siria e il processo politico senza interferire», ha affermato.

Se non fosse già stato pagato un prezzo tragico in questi nove anni di guerra, parole come queste, pronunciate da due tra i Paesi che più hanno inciso con la loro presenza sul Medio oriente negli ultimi quarant’anni, potrebbero quasi strappare un sorriso. Eppure, ancora una volta, sulla pelle dei siriani si giocano partite che non contribuiscono in nessun modo alla risoluzione del problema.

 

Foto a cura dell’Ospedale pediatrico Bambin Gesù