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Daca o non daca…

Sono in prima linea, in questi mesi di emergenza Covid, come operatori sanitari, medici e infermieri, tecnici di laboratorio, assistenti alle persone anziane. Eppure rischiano il doppio dei loro colleghi. Sono le circa 62.600 persone (l’età media è 26 anni) che beneficiano, in quanto figli di immigrati irregolari, del “Deferred action for childhood arrivals” (Daca), una legge del governo Obama del 2012 che ha regolarizzato centinaia di migliaia di bambini e ragazzi con un permesso di due anni, rinnovabile, che però non ha niente a che vedere con l’ottenimento della cittadinanza. Negli anni oltre 800.000 persone hanno beneficiato di questo programma, e secondo le stime governative al 31 dicembre 2019 erano 650.000. E il Center for American Progress stima che circa 202.000 destinatari del Daca siano attualmente impiegati in “servizi essenziali”. Spesso sono chiamati “dreamers”, dal nome del Development, Relief, and Education for Alien Minors Act, Dream Act, appunto, presentato a più riprese al Congresso, dal 2001, ma mai entrato in vigore, che prevede a differenza del Daca un iter per l’ottenimento della cittadinanza americana.

L’amministrazione Trump nel settembre 2017 ha bloccato il Daca, facendo ripiombare queste persone nel limbo dell’irregolarità, e solo alla fine di giugno la lunga battaglia legale dovrebbe concludersi con il pronunciamento della Corte Suprema. I timori sono legati alla maggioranza conservatrice della Corte, che alcuni mesi fa si era espressa in linea con il Presidente, ma i pareri al suo interno sono ancora divisi, tant’è che non si è ancora arrivati a un pronunciamento. La questione su cui potrebbero fare leva è la valutazione “umana”, più che legale, tenendo cioè conto delle conseguenze che la decisione avrebbe su migliaia di persone.

Quanto nell’autunno 2019 lAssociation of American medical Colleges si pronunciò sulla questione, spiegò (con parole che oggi suonano profetiche) che in caso di pandemia il contributo dei “Dreamers” nel settore sanitario sarebbe stato fondamentale: «Il rischio di una pandemia continua a crescere, dal momento che le malattie infettive possono diffondersi in tutto il mondo in pochi giorni a causa dell’aumento dell’urbanizzazione e dei viaggi internazionali. […] Queste condizioni rappresentano una minaccia per la sicurezza sanitaria dell’America […] Revocare il Daca priverebbe il settore pubblico di professionisti sanitari qualificati e formati internamente…»

E lo hanno ribadito a fine marzo gli stessi “Dreamers” impegnati nell’ambito sanitario, sottolineando che «chiudere il Daca durante questa emergenza nazionale sarebbe una catastrofe».

Intanto, coloro che in questi anni negli Usa ci sono cresciuti, hanno studiato, trovato un lavoro e magari si sono costruiti una famiglia, vivono una situazione difficile. Alcuni sono riusciti a ottenere uno status legale come richiedenti asilo o sposando cittadini americani, altri hanno già lasciato il paese a favore del Messico, del Canada e dell’Europa.

Tanti (rettori universitari, avvocati, medici…) sottolineano l’importanza di questi giovani lavoratori, mentre i sostenitori della loro espulsione ritengono che la maggior parte non possieda titoli di studio e sia quindi impiegata in mestieri di fascia bassa, entrando in competizione con gli americani più vulnerabili economicamente. In realtà, per ottenere il “Daca”, oltre a non aver commesso reati, essere arrivati negli Usa a un’età inferiore a 16 anni e averci vissuto per almeno gli ultimi 5 anni, occorre avere un diploma superiore (stare frequentando la scuola, nel caso di minorenni).

Anche le chiese, da sempre impegnate nella difesa dei diritti dei Dreamers, continuano a giocare il loro ruolo di advocacy e di sensibilizzazione, ovviamente in modalità “virtuale”: l’ufficio per le relazioni con il Governo della Chiesa episcopale ha tenuto un’azione online in aprile, contattando i legislatori (di entrambi i partiti) per trovare una soluzione che rifletta il principio biblico dell’amore del prossimo e dell’accoglienza dello straniero. Altri incontri di discussione, con testimonianze, pareri di esperi, si sono tenuti online nelle scorse settimane.

Intanto, nell’area di Los Angeles, l’Interfaith Refugee and Immigration Service (Iris), agenzia no-profit sempre in ambito episcopale, si occupa di aiutare rifugiati e migranti nel contesto dell’emergenza Covid, nonostante le limitazioni: assistenza online per quanto riguarda le pratiche e i documenti (green card…), colloqui via Zoom, e come dice la direttrice esecutiva dell’Iris, Meghan Taylor, «stiamo spingendo quelli che hanno beneficiato del Daca a chiedere ora il rinnovo, in quanto ci aspettiamo di giorno in giorno la decisione della Corte Suprema», e si presume che, anche in caso di decisione negativa, le domande già presentate verranno soddisfatte. 

La situazione è molto difficile, spiega Taylor, tre anni fa c’erano dieci agenzie per il ricollocamento dei migranti solo a Los Angeles, ora ce ne sono appena due oltre a Iris in tutto il sud California, esclusa Dan Diego.