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Minori non accomagnati, poco si muove

Per le persone più vulnerabili è difficile trovare luoghi sicuri. Questo è ancora più vero in un mondo che, a causa della pandemia di SARS-COV-2, è entrato nella peggiore crisi degli ultimi decenni.

Un rapporto di Unicef del 2016, aggiornato poi di anno in anno, racconta come negli ultimi quindici anni il numero di minori rifugiati sia più che raddoppiato a livello globale. Tra le crisi più gravi, non si può dimenticare quella siriana, cominciata nel 2011 e ancora lontana da una qualche soluzione, soprattutto per i milioni di persone che sono state costrette a fuggire per sfuggire alla guerra, alle persecuzioni politiche e a linee del fronte in continua trasformazione.

Da anni, migliaia di persone provenienti dalla Siria transitano dalle isole greche, in particolare da Lesbo, così vicina alla costa turca e così lontana dalla speranza di una vita tranquilla in Europa, pur facendone parte a livello politico-amministrativo. Nei campi greci, come raccontato più volte da Federica Tourn e Claudio Geymonat, si sopravvive in condizioni sanitarie e di sicurezza che definire precarie è riduttivo. Mentre sono oltre un milione le persone che hanno dovuto lasciare le loro case negli ultimi due mesi, le paure per la crisi sanitaria globale continuano a crescere, ben sapendo che se si dovesse abbattere su situazioni come quella di Moria non lascerebbe spazio alla speranza. Inoltre, ci si aspetta che altre migliaia di persone possano decidere di fuggire dalla Siria nelle prossime settimane, perché appena una struttura sanitaria su tre nel Paese è funzionante, e questo problema diventa più grande man mano che ci si allontana da Damasco e dalle zone in cui oggi non si combatte. Oggi, nei cinque principali campi profughi greci, vivono oltre 40.000 persone, di cui un terzo (13.600) hanno meno di 18 anni. Tra questi, secondo la Commissione europea 1.600 sono minori non accompagnati. Altree stime, come quella di Unicef, parlano invece di 5.000 minori senza famiglia.

Dov’è la solidarietà internazionale di fronte a una situazione in costante peggioramento? Difficile dare una risposta, perché troppo spesso, anche in tempi “normali”, ci si è nascosti dietro questioni di sicurezza, oppure dietro calcoli elettorali, per chiudere i propri confini. Oggi, di fronte alla crisi da coronavirus, è difficile aspettarsi qualcosa di diverso. Eppure, anche in Europa, ci sono alcuni esempi da seguire. La Svizzera, luogo in cui venne firmata la Convenzione di Ginevra sui rifugiati, ha recentemente chiesto maggiore impegno in supporto ai minori non accompagnati, indicando forse un cambio di politica rispetto agli ultimi anni.

Allo stesso modo, nelle ultime settimane alcune decine di bambini e bambine hanno potuto lasciare le isole greche per essere accolti in Europa. Lo scorso 15 aprile, il Lussemburgo ha ricevuto 12 persone, mentre il giorno dopo la Germania ne ha accolte 47. La Finlandia, invece, il 30 aprile, ha annunciato la disponibilità ad accogliere 100 minori non accompagnati e 30 adulti richiedenti asilo. I trenta adulti che arriveranno in Finlandia, in particolare, raggiungeranno membri delle proprie famiglie già residenti nel paese.

Tutto questo avviene grazie a un piano della Commissione europea che prevede di far accogliere agli Stati membri 1.600 minori non accompagnati. Eppure, anche per raggiungere una cifra così limitata le difficoltà non mancano.

La Commissaria europea per gli Affari interni e le migrazioni, Ylva Johansson, ha annunciato a fine aprile che i prossimi Paesi disponibili ad accogliere queste persone saranno Slovenia e Portogallo. Proprio da Lisbona, l’europarlamentare socialista Isabel Santos ha annunciato che il Portogallo accoglierà tra i 50 e i 60 minori non accompagnati, confermando quindi il proprio impegno. Il Paese iberico, in effetti, era stato il primo a rispondere alla richiesta europea di supporto al piano di ricollocamento, riconoscendo le condizioni inaccettabili dei campi greci. Tuttavia, Santos ha sottolineato che «lo schema europeo in matera ha fallito sin dall’inizio».

In effetti, ricordando anche le dichiarazioni di Ursula Von der Leyen, che aveva definito la Grecia «lo scudo d’Europa», scegliendo quindi un linguaggio securitario e vagamente militarista per parlare di un’emergenza umanitaria, è chiaro che l’approccio europeo basato sulla solidarietà volontaria non abbia terreno fertile, soprattutto perché nel frattempo ogni Paese sta cercando di capire come riemergere da mesi di lockdown e di crollo dell’economia.

La chiusura dei confini in tutto il mondo per ragioni sanitarie, inoltre, influenza anche le migrazioni: ad aprile 2020, per la prima volta il numero di persone migranti ospitate nei campi delle isole greche è diminuito, soprattutto per via del netto calo degli arrivi alle frontiere terrestri e marittime e al trasferimento delle persone più vulnerabili nella Grecia continentale. Quanto di questo calo sia determinato dalle restrizioni anti-Covid-19 e quanto ai finanziamenti europei per le pattuglie greche ai confini, tuttavia, è difficile stabilirlo.

In questo contesto, rimangono sul tavolo numerose questioni. Prima di tutto, quali effetti avrà la nuova legge sul “miglioramento della legislazione sull’immigrazione” approvata in Grecia venerdì 8 maggio? In questo testo si consente la detenzione automatica, fino a un massimo di 36 mesi, dei richiedenti asilo il cui appello è stato respinto e di coloro che sono soggetti alla procedura d’espulsione. Inoltre, si prevedono nuove limitazioni ai diritti dei richiedenti asilo nelle varie fasi della procedura, e i campi aperti di accoglienza nelle isole dell’Egeo verrebbero sostituiti da “centri chiusi controllati”. Insomma, come sempre il termine “miglioramento” assume significati diversi in base alla prospettiva.

A questo proposito, c’è un’altra considerazione da fare: in questi mesi di emergenza sanitaria  Italia e Malta hanno ripristinato le politiche dei “porti chiusi”, abbandonando le persone in mare. Austria, Cipro e Ungheria hanno limitato l’accesso all’asilo, mentre i Paesi lungo la “rotta balcanica”, come Serbia e Bosnia Erzegovina, lasciano migliaia di persone in campi che sono in condizioni inaccettabili. Sono tutti segnali poco incoraggianti, in un momento in cui si sente spesso ripetere che dalla crisi sanitaria potremo uscire come “persone migliori”. Ma in che cosa potremo dire di essere “migliori”, se continueremo senza indugio a lasciare indietro le persone più vulnerabili?