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Shadi Habash, un nuovo caso oscuro dall’Egitto

Ancora una volta, l’Egitto è protagonista di un caso di giustizia negata che si somma alle numerose storie di cui il Paese, negli ultimi anni, si è reso protagonista.

A rompere il generale silenzio sul sistema di incarcerazioni e sparizioni forzate che gli organi di sicurezza egiziani hanno allestito sin dal colpo di Stato che nel 2013 portò al potere Abdel Fattah Al-Sisi, è questa volta la morte di un fotografo e regista egiziano, Shadi Habash, morto a soli 24 anni venerdì 1 maggio nel carcere di Tora, alla periferia del Cairo, lo stesso in cui è rinchiuso Patrick George Zaki.

Habash era stato arrestato nel marzo 2018 e da allora era detenuto in attesa di processo. «La sua salute è andata peggiorando per diversi giorni», racconta all’agenzia stampa France Presse il suo avvocato, Ahmed el-Khwaga, «era stato portato in ospedale, poi è stato rimandato in carcere, dov’è morto». Le autorità egiziane non hanno commentato quanto accaduto, ma la ragione dell’arresto è chiara a tutti. «Come videomaker – spiega Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International Italia – ha diretto una serie di video, compreso quello incriminato di questo cantante esule in Svezia che aveva scritto un brano satirico, Balaha, che in italiano si traduce con “dattero”, rivolto al presidente al-Sisi». “Balaha” non è soltanto il frutto, ma è un personaggio comico del cinema popolare egiziano degli anni Settanta, noto per mentire in modo patologico. Un messaggio forte ed evidentemente vietato in un Paese in cui, come ricorda ancora Noury, «c’è una linea rossa che supera inavvertitamente, perché è mobile, separa quello che è lecito per quello che è illecito e uno non si rende conto di averla oltrepassata fino a quando viene portato in carcere».

La canzone, tuttavia, non era nemmeno stata scritta da Habash, che aveva soltanto diretto il video, ma dal poeta Galal el Beheiry, anche lui in carcere, insieme al cantante Rami Essam, una delle voci più note della Rivoluzione del 2011, quando due suoi brani (Pane, libertà, giustizia sociale e Irhal, ”vattene”, indirizzato a Hosni Mubarak) furono cantati insieme a lui da milioni di manifestanti a piazza Tahrir.

A pochi giorni dalle elezioni del marzo del 2018, che videro la riconferma di al-Sisi, il video della canzone di Essam, che ora è in esilio in Svezia, aveva superato i tre milioni di visualizzazioni su Youtube. Troppo per un potere politico che non accetta di essere messo in discussione.

Proprio allora Habash venne portato in carcere, nella prigione di Tora, e tenuto in detenzione preventiva per indagini che non sono mai andate avanti. «È la prassi in Egitto. Quel carcere – continua Noury – o ti uccide di botte o ti uccide di mancate cure mediche o ti uccide di isolamento. Il 2 maggio è accaduto anche lui, così com’era accaduto ai suoi compagni di prigionia, come stanno raccontando le cronache degli esuli egiziani di questi ultimi giorni».

La condizione di sistematica incertezza a cui si è sottoposti nelle carceri egiziane porta ancora una votla all’attenzione mondiale le condizioni in cui i detenuti vivono all’interno delle prigioni del Paese, già normalmente pericolose e sovraffolate e in queste settimane rese ancora più pericolose dalla pandemia di coronavirus. In questa incertezza vive anche Patric George Zaki, il cui arresto preventivo è stato prorogato di 45 giorni in 45 giorni senza nemmeno una formalizzazione delle accuse.

Martedì 5 maggio i giudici egiziani hanno deciso che lo studente dell’Università di Bologna, rimarrà in carcere nonostante le sue preoccupanti condizioni di salute. Zaki, infatti, soffre d’asma e ha problemi respiratori seri, che nel contesto dell’emergenza sanitaria globale rappresentano un ulteriore elemento di allarme. «Sappiamo che è vivo – chiarisce il portavoce di Amnesty – per il semplice fatto che nessuno ci ha detto che è morto. L’ultima visita i suoi familiari l’hanno potuta effettuare il 9 di marzo, quindi siamo quasi a due mesi di distanza. Quello che sappiamo è che dovrebbe essere scarcerato, prima di tutto perché è innocente, e poi perché è un soggetto a rischio. E allora quello che Amnesty International ha deciso di fare in queste ultime settimane insieme all’Università di Bologna e al Comune di Bologna è di sollecitare un provvedimento umanitario di rilascio per motivi di salute. Lo abbiamo fatto coinvolgendo l’ambasciatore italiano in Egitto, Giampaolo Cantini, che ha risposto garantendo interessamento in una prima occasione e gli abbiamo riscritto proprio in questi giorni per chiedere che dia seguito alle sue buone intenzioni». Buone intenzioni che purtroppo, finora, non hanno portato a risultati concreti.

Il fatto è che queste violazioni, così evidenti, così documentate e dal rilievo internazionale, non sembrano avere alcuna conseguenza. «Politicamente – riflette Riccardo Noury – l’Egitto non rende conto a nessuno, perché i rapporti sono così forti sul piano bilaterale con tanti Paesi e sono rapporti di convenienza, di armonia, di scambi di varia natura. Dovrebbe rendere conto agli organi internazionali sui diritti umani, ai meccanismi sui diritti umani delle Nazioni Unite che però hanno un potere persuasivo pari a zero, possono fare dei report delle denunce e approvare delle risoluzioni, condannare, però tutto questo non incide. Inciderebbe una presa di posizione politica nei rapporti di alcuni paesi chiave con l’Egitto ma questa presa di posizione manca».

È legittimo chiedersi se la crisi del mercato degli idrocarburi, il crollo del prezzo del petrolio e in generale la flessione economica globale, possano ridurre la posizione di forza dell’Egitto, costringendolo a rendere conto delle proprie azioni di fronte alla comunità internazionale. Tuttavia, il Paese non è così dipendente dalle esportazioni di petrolio come lo sono altri nella regione, soprattutto nella Penisola arabica o nel Golfo persico, quindi anche questa ipotesi sembra da scartare. «L’Egitto – conclude infatti Noury – ha altre risorse che non sono semplicemente legate a fattori economici. La sua posizione lo rende un Paese chiave nella zona dell’Africa del Nord, in particolare rispetto alla Libia, ma anche rispetto a fenomeni come l’immigrazione. È stato il primo Paese a raggiungere la pace con Israele, quindi in qualche modo è considerato un esempio di moderazione e di progresso. Queste sono carte che l’Egitto gioca con intelligenza, minacciando che se venisse a mancare questo ruolo equilibratore e di pace nell’area il terrorismo esploderebbe, l’immigrazione ripartirebbe e la Libia si spezzerebbe ancora di più».