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La guerra e la quarantena fra la tragedia e il nulla

Le giornate difficili che ci è stato dato vivere nelle ultime settimane hanno condotto molti a stabilire un paragone fra questa esperienza e la guerra. Questo accostamento di esperienze storiche, efficace nella misura in cui l’immagine suggerisce pensieri di disagio, limitazione, pericolo, e come tale legittimo, non mi è parso del tutto convincente. Facendo un raffronto personale fra quei sei anni della mia preadolescenza e la quarantena attuale, si tratta di condizioni fra cui è impossibile stabilire un confronto. 

Per molti motivi oggettivi, anzitutto: chi può oggi immaginare l’atmosfera delle case nel coprifuoco, un’assenza di comunicazione all’infuori di una radio del regime, il viaggiare d’inverno in un carro bestiame, le sirene degli allarmi aerei e i bombardamenti? Neanche il miglior regista sa dirlo. Per quel che mi concerne, quel periodo si era aperto a Parigi, nei primi giorni di scuola, con le prove di evacuazione della classe e dell’uso delle maschere antigas e si concludeva con l’ultimo rastrellamento delle SS. Fra le due giornate sta il resto, che è inutile evocare perché non rientra nel discorso. Ma mi viene da pensare che la distanza abissale fra le due esperienze non è soggettiva, ma segna una svolta culturale, facendo ricorso a immagini teatrali.

La guerra, nella mia esperienza, si colloca nel mondo della tragedia: con questa geniale invenzione l’uomo allude alle realtà che sfuggono al suo controllo, gli dèi per Eschilo, le passioni per Shakespeare, che determinano la realtà e di cui egli è spettatore. Da quelle esperienze rivissute nel teatro di Siracusa e nel Globe Theatre di Londra gli spettatori traevano una visione della condizione umana e di sé. Il secondo conflitto del ‘900 è stato il più tragico documento di questa dimensione del vivere umano.

I sei anni di guerra e le tre settimane di quarantena stanno all’inizio e al termine del mio percorso esistenziale, con in mezzo gli anni della vita vissuta, ma si tratta di due realtà radicalmente diverse. Vedo in lontananza il mondo della tragedia, ora sono in quello della commedia classica, rivissuta in chiave moderna da Beckett nel suo celebre lavoro del dopoguerra in cui i personaggi vivono nell’attesa dell’arrivo improbabile di Godot, che forse non verrà mai. 

Quale abisso separi il mondo di Eschilo e quello di Godot, il tragico e l’assurdo, la guerra e il dominio del virus, ci è dato da alcune immagini che abbiamo avuto sotto gli occhi di recente; per meglio dire icone, non essendo solo immagini che documentano la realtà ma chiavi che rivelano l’inconscio. 

Sono quelle dei due pontefici romani che hanno avuto a che fare con queste esperienze. La prima, ormai classica, è quella di Pio XII sulle rovine dopo il bombardamento (per molto tempo si è pensato che fosse stata scattata nel quartiere di san Lorenzo dopo il primo bombardamento del 19 luglio 1943, bensì è davanti alla basilica di San Giovanni dopo il secondo bombardamento sulla capitale, poche settimane dopo, ndr) attorniato dalla folla orante, in preghiera con le mani rivolte al cielo: la tragedia. La seconda, recente, che diventerà classica: Francesco, seguito a distanza dalla sua scorta, che vaga con passo incerto per le strade deserte di Roma prostrato da una stanchezza interiore, pellegrinante fra l’immagine della madonna in Santa Maria Maggiore e il crocifisso di san Marcello al Corso, icone sacre che stando alla tradizione hanno soccorso la città nelle epidemie del passato: l’assurdo di una cristianità al declino.

La seconda icona nella pandemia è il corteo dei camion militari che trasportano salme al crematorio. La tragedia conosce la morte, è tutta incentrata su quella, ma nemmeno a Tebe, alla guerra di Troia, il morto era stato ridotto a oggetto. Per la prima volta nella storia dell’homo sapiens la morte, da categoria fondamentale della tragedia (ricordare il suo posto iconico nella guerra), sottratta al mondo della vita, di cui è stata sin qui frontiera, ridotta al crepare dell’animale, è risucchiata nel nulla.

Una ulteriore icona dell’assurdo sono i giorni del Signore pietrificati nel silenzio, che cerchiamo di colmare con telefonate, messaggi, internet, la dominica dies dell’assurdo di cui è icona la messa desolata in un san Pietro desertificato. 

Dopo decenni di egocentrismo tecnologico, frastornati dall’irruzione dell’assurdo nella nostra vita, viviamo aspettando la fine della pièce teatrale, un 25 aprile che ci restituisca, come accade nella tragedia, la libertà. Questo non avverrà: il 4 maggio non sarà il giorno della liberazione ma una giornata banale nel mondo assurdo di Godot, vi siamo entrati a inizio 2020 senza rendercene conto, guardando altrove, e continuiamo a farlo divagando, polemizzando, sognando mentre, destinati a vivere a lungo nell’assurdo, dovremmo ripensare tutto: l’esistenza e la morte, la fede e la ragione, la vita nella natura e nella polis, la città. 

 

Immagine tratta da Aspettando Godot messo in scena da Otomar Krejca, Festival di Avignone 1978