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Fedeli in carne e ossa: un problema antico

Le chiese protestanti nel nostro paese hanno messo in opera varie iniziative online per poter tenere culti, studi biblici e catechesi a distanza, nel rispetto delle decisioni governative. Ma hanno anche dato vita a una serie di riflessioni su che cosa significhi, oggi ma anche domani, essere chiesa, e “vivere la chiesa”. Dopo gli interventi di Winfrid PfannkucheRoberto Davide Papini,  e Sabina Barall’intervento del pastore Peter Ciaccio ci dice che il problema non avrebbe dovuto coglierci di sorpresa.

Nel numero 15 di Riforma (p. 10)) c’è un interessante commento di Sabina Baral alla «bella sperimentazione creativa» che ha permesso alle nostre chiese, chiuse dal Covid-19, di continuare a vivere in qualche maniera. L’autrice esprime, però, il timore che si dimentichi il lato umano delle relazioni, di «essere soprattutto una chiesa di fedeli in carne e ossa, sentimenti e corpi, dove non si rimane su un piano di orizzontalità ma si coltiva la dimensione verticale del rapporto con Dio e dove si continua a indagare la vita in profondità».

Confesso di condividere questo timore, ma non solo per quanto riguarda la situazione odierna. In altre parole, non credo che le nostre comunità corrano il rischio di dimenticarsi di essere chiese di Gesù Cristo perché i locali sono chiusi e ci dobbiamo accontentare di culti su Zoom, YouTube, Facebook e Whatsapp. Credo che questo sia, invece, uno dei problemi che le chiese si portano dalle origini e che la Riforma protestante sia stata anche una proposta di soluzione.

Purtroppo i timori di Baral sono fondati tutti i giorni, quando le chiese mostrano difficoltà sia sul piano orizzontale, non riuscendo a includere pienamente tutti e tutte, sia sul piano verticale, quando ci si dimentica della relazione che Dio ha instaurato con ciascuno e ciascuna di noi, a livello personale e collettivo. Non sempre le chiese sono “calde” con chi ci è seduto accanto né con Dio.

Oggi (e in un prossimo domani) vanno analizzate le reazioni alla crisi Covid-19, che hanno scavalcato il divieto di distanziamento sociale grazie alle “nuove” tecnologie.

C’è una vicenda del secolo scorso da cui potremmo trarre qualche suggerimento: l’avvento del cinema sonoro. In un Novecento che si abituava presto alle nuove invenzioni, il cinema si era quasi subito affermato come un rito di massa. I film erano proiettati in sale spesso non diverse dai saloni delle nostre chiese che, spostando tavoli e sedie, ancora oggi vengono preparati per vedere qualcosa. C’era sì qualche teatro (i “politeama”, gli “odeon”), ma i film muti riuscivano a raggiungere i luoghi più impensati. Finché il cinema era solo visivo bastavano una sala, un lenzuolo e un pianoforte (magari suonato dall’organista della chiesa).

In appena trent’anni il rito si era consolidato, finché nel 1927 il primo film sonoro (Il cantante di jazz di Alan Crosland) rivoluzionò tutto, non senza creare nuove difficoltà. L’avanzamento tecnologico rese, infatti, più difficile fare film a chi non aveva la forza produttiva di Hollywood.

Non a tutti piacque la svolta. Charlie Chaplin resistette ben nove anni prima di far sentire la propria voce in Tempi moderni (1936), film largamente muto, in cui i pochi dialoghi sono filtrati da una macchina (a esempio, un interfono), eccetto la scena finale, in cui ascoltiamo la voce dell’artista cantare una canzone senza senso. Il messaggio di Chaplin è che il sonoro non rende il cinema più vero, ma solo un’illusione più raffinata.

Nonostante tutto, però, il cinema non è morto col sonoro, anzi, ha richiesto una maggiore cura nella “celebrazione del rito”: è proprio diventato più vero! Non basta più la sala con lenzuolo e pianoforte, ma ci vuole un luogo “consacrato”, che appunto prende il nome dell’invenzione e dell’arte che ne è derivata: il cinema.

Anche noi abbiamo bisogno di quei luoghi deputati a incontrarci: le chiese, l’Aula sinodale, la Facoltà di Teologia, i centri giovanili. Quando torneremo in quei luoghi, non lo faremo in maniera scontata e forse cercheremo di fare evolvere quelle reti create per emergenza, insomma, cercheremo di integrare l’esperienza tecnologica con l’incontro in carne e ossa.

Forse prima ci mancava qualcosa, come mancava al cinema muto. Forse riusciremo presto a consacrarci” di più, a essere “più chiesa”, in senso orizzontale e verticale, nella relazione con il prossimo e nella relazione con Dio. O forse no. Dipende da noi.