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Stati uniti dal virus

In questi giorni si è parlato soprattutto delle date in cui potrebbe o potrà ricominciare una serie di attività e di movimento passando a quella indicata come “fase due” della pandemia. C’è un’altra data importante: il 22 aprile, l’Earth Day, Giornata mondiale della Terra, che quest’anno compie il 50° anniversario. Ideata nel tempo delle grandi manifestazioni contro la guerra in Vietnam e sostenuta in particolare dai Kennedy, è la più grande manifestazione per promuovere la salvaguardia del nostro pianeta, con ben 192 paesi e un miliardo di persone coinvolte.

Ma che cosa c’entra la salvaguardia del pianeta con il coronavirus e i drammi umani, il dolore che ha provocato? Tantissimo. Perché il susseguirsi di malattie nuove sempre più frequenti e terribili (Ebola, influenze suine e aviaria, Hiv, febbre gialla…) deriva quasi sempre dall’alterazione dei delicati equilibri naturali esistenti tra le differenti specie viventi e i loro habitat. C’è voluto molto tempo (troppo) perché, non solo nei movimenti ambientalisti, ma nella politica e nelle leggi dei vari paesi, questo tema diventasse fondamentale; ciononostante gli Stati prendono impegni per ridurre inquinamento e temperatura del pianeta senza mantenerli. E sono in genere quelli più grandi. La Terra è un macrorganismo in cui tutto si tiene: biologia, ecologia, economia, istituzioni sociali giuridiche e politiche. La salute di ogni individuo è interconnessa e dipendente dal buon funzionamento dei cicli vitali del pianeta. 

Come ha ripetuto recentemente all’Onu la coraggiosa Greta Thunberg, così si ruba ai giovani il loro già precario futuro. Nessuno ignora le cause del degrado (abbattimento e incendi di foreste, consumo dissennato di suolo vergine, sfruttamento minerario, concentrazione di allevamenti animali, agricoltura superintensiva, sovraffollamento urbano, spostamento continuo di merci e persone, inquinamento…) ma si fa poco, comunque non abbastanza, per evitarlo. Non si è dato retta alle molte voci preoccupate, come quella di David Quammen, attento osservatore dei microorganismi patogeni, che già nel 2012 aveva scritto: «Là dove si abbattono gli alberi e si uccide la fauna, i germi del posto si trovano a volare in giro come polvere che si alza dalle macerie». Ecco una delle facce pericolose della globalizzazione: i virus non conoscono frontiere, ma nel medesimo tempo gli umani rialzano muri che si credevano caduti e ne preparano altri: accanto ai nazionalismi nascono gli Stati Uniti dal Virus…

Questo sistema economico (si chiama neoliberismo) vuole ridurre tutto a merce, compresa la salute. Il metro di misura per le varie attività è soltanto il denaro, il profitto. La salute non viene più pensata in relazione al territorio e alle diverse necessità, ma al denaro; gli ospedali si aziendalizzano e il governi tagliano i fondi alla sanità pubblica, privandola di quelle attrezzature che possono rivelarsi decisive in situazioni come quella che stiamo vivendo.

Se questi fatti dipendono dal sistema neoliberista, che fino a ieri si chiamava capitalismo, allora i sacrifici e l’abnegazione di tanti medici e infermieri per ospitare, curare, sostenere le persone a loro affidate costituiscono un momento importante della lotta per un mondo più giusto. Un mondo nel quale non sia più accettabile che alcuni muoiano – che letteralmente diano la vita per il prossimo (mors mea vita tua) – perché mancano mascherine e altri si arricchiscano lucrando sul loro prezzo. Un fatto, questo, che mi ha ricordato quella notte dopo il terremoto de L’Aquila, quando, mentre la gente moriva soffocata, c’era qualche potente che gioiva per i lauti profitti realizzabili nella ricostruzione.

E infine una domanda all’economia di domani e alla ricerca, da rilanciare e sostenere finanziariamente. Visti i continui progressi dell’intelligenza artificiale (i robot) non si potrebbe affidare a questi “sostituti” una serie di azioni di tipo meccanico, semplici, ripetitive (come i tamponi?) ma potenzialmente “pericolose” per la salute degli operatori umani?