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Libano e Siria, ai tempi del Covid19. Prima parte: il diritto alla salute

Cosa sta succedendo in Libano, in queste settimane di diffusione del Covid19? Qual è la situazione dei rifugiati siriani? Come prosegue il lavoro di Mediterranean Hope, programma migranti e rifugiati della FCEI, che gestisce i corridoi umanitari? Pubblichiamo da oggi una serie di articoli ad hoc, con informazioni e dati raccolti dallo staff di MH. La prima parte del dossier è costituita da un report, qui di seguito, a cura di Luciano Griso, medico, responsabile di Medical Hope.

La situazione sanitaria in Libano al tempo del Covid19

La minaccia rappresentata dalla Pandemia Covid-19 non sarebbe potuto arrivare in Libano in un momento peggiore.

Il Paese è  reduce da cinque mesi di continue proteste popolari contro il malgoverno e la corruzione che hanno portato come risultato alle dimissione del capo del Governo (Saad Hariri) e, dopo mesi di trattative, alla nomina di un nuovo Primo Ministro (Hassan Diab), presentato come un tecnico, ma in realtà frutto dell’alleanza fra Cristiani ed Hezbollah. 

Il Libano si trova ad affrontare, per vari motivi fra cui una corruzione endemica e la mancanza di una base produttiva,  la peggiore crisi economico-politica dopo la guerra civile (1975-90) e si trova sull’orlo della bancarotta. A marzo ha dichiarato la impossibilità  di onorare il pagamento di 1,2 miliardi di dollari di Eurobond. Si fa strada quindi lo spettro del ricorso ad un prestito da parte del Fondo monetario internazionale, che molti vorrebbero evitare per le pesanti conseguenze che avrebbe sulle condizioni di vita dei libanesi, già  prostrati dalla crisi economica, per  il consueto corteo di misure, in termini di taglio della spesa pubblica, peraltro già  ridotta al minimo, solitamente richieste. Per rendere meglio l’idea della gravità della situazione la Banca Mondiale avverte che nei prossimi mesi circa  metà della popolazione potrebbe cadere sotto la soglia di povertà. 

Questa crisi finanziaria con la conseguente scarsità di risorse economiche, condiziona quindi fortemente la capacità del sistema sanitario libanese di affrontare in maniera adeguata la crisi Covid-19 con gli interventi necessari: dall’assunzione di personale sanitario specializzato, all’acquisto di test per lo screening dell’infezione e di farmaci, all’equipaggiamento delle Unità di terapia intensiva.

La realtà  libanese è ben chiara a livello internazionale, tant’è che  alcune istituzioni  sono intervenute per cercare di ridurre l’impatto della pandemia sulla popolazione. 

Il 12 marzo la Banca Mondiale come prima risposta alla crisi ha finanziato con 40 milioni di dollari il “Lebanon Health Resilience Project”. Il finanziamento è  rivolto ad implementare la capacità  di diagnosi nei casi sospetti ed a rafforzare le misure di prevenzione della diffusione della epidemia.

L’UNHCR ha pianificato di finanziare  800 letti ospedalieri e 100 posti di terapia intensiva in sette diversi ospedali distribuiti sul territorio nazionale. Inoltre il costo dei test per il Covid-21 e l’eventuale ricovero per le persone infette sarebbe a totale carico dell’Agenzia ONU.

L’UNICEF ha consegnato forniture sanitarie ai 194 centri di Primary Health Care (650.000 paia di guanti, 830.000 mascherine, 34.000 maschere per respiratori) insieme a detergenti e disinfettanti per le scuole e luoghi pubblici.  Si è inoltre impegnata a fornire un appropriato training sulle misure preventive da mettere in atto  a personale governativo, Ong, istituzioni. 

Malgrado questa assunzione di responsabilità  da parte delle istituzioni internazionali, l’impatto economico e sociale della epidemia sulla società libanese è devastante. Il lockdown iniziato a metà  marzo con la sospensione dei commerci ha inferto un colpo mortale alla economia informale del Paese che è  quella che permette livelli minimi di sopravvivenza alla parte più  vulnerabile della popolazione locale ed alla maggior parte dei rifugiati. Non si dimentichi che il Libano conta la più alta percentuale di rifugiati per numero di abitanti del mondo

Inoltre anche in assenza di epidemie, migranti e rifugiati, come anche i libanesi poveri affrontano barriere enormi (economiche e logistiche) per avere accesso ai servizi sanitari. Le misure di contenimento che impongono severe restrizioni ai movimenti ed ai contatti all’intera popolazione (“stai a casa”, distanziamento sociale, quarantena) non sono certamente applicabili alla maggioranza  dei campi e delle aggregazioni abitative informali. Questo è  il motivo per cui è  alto il pericolo di diffusione dell’epidemia all’interno di queste comunità  sovraffollate e più  che mai necessario il bisogno di piani rivolti a ridurre l’impatto della infezione fra questa popolazione ad alto rischio

A fronte della allarmante situazione descritta, il governo libanese diffonde giornalmente dati  sulla diffusione dell’epidemia estremamente rassicuranti. 

In Libano al 19 aprile i contagiati sarebbero 673 e le vittime solo 21.

Il sospetto, sollevato da molte parti (ad esempio in questo articolo del Guardian), è che il numero delle persone infettate superi di molto quello ufficiale fornito dal governo (nelle statistiche fornite le persone infettate di nazionalità siriana, quindi rifugiati, sono solo 3). 

I motivi di questo fenomeno potrebbero essere vari. Fra questi il mancato accesso ai test specie nelle zone periferiche del Paese ed il fatto che attori extra-statali sottopongono di loro iniziativa a quarantena intere popolazioni in aree fuori dal controllo governativo (osservazione valida anche per l’Iraq). È  da sottolineare,  al riguardo, che nel sud del Libano Hezbollah ha posto in quarantena parecchi centri in cui si erano riscontrati casi di infezione e che l’organizzazione ha dichiarato che circa 1500 medici  e 3000 infermieri sono stati mobilitati e hotels vuoti requisiti per le quarantene (numeri che appaiono sovrastimati).  Lo spettro di strutture sanitarie parallele, con le loro vittime non dichiarate, causa allarme sulla reale diffusione dell’epidemia. 

La violenza contro le donne

È da sottolineare infine un aspetto di cui pochi parlano,  un “effetto collaterale” del lockdown che si accompagna alla quarantena, all’isolamento  sociale, alla perdita del lavoro e degli introiti economici. Cioè l’aumento degli episodi di violenza di genere contro donne e ragazze,  le quali,  a causa delle misure di confinamento, non riescono  a sfuggire a partner aggressivi e violenti e a rivolgersi ai servizi di emergenza e sociali.

Vittime di abusi e sfruttamento  sono particolarmente le  lavoratrici domestiche migranti, provenienti dal Corno d’Africa sottoposte al Kefala System (sorta di sponsorship che fa arrivare donne direttamente a casa del datore di lavoro che è  autorizzato a sequestrarne i documenti rendendo così  le lavoratrici vittime di ogni tipo di ricatto, spesso sessuale. Ha fatto scalpore recentemente  il verosimile assassinio da parte dei datori di lavoro di una ragazza ghanese che aveva denunciato più volte questo pericolo, come riportato dal Middle East Monitor). Molti dati sottolineano inoltre il  fatto che le precarie condizioni economiche e  la perdita del lavoro spingono le donne nel circuito dello sfruttamento sessuale. 

Il nostro impegno continua

L’incertezza sull’andamento dell’epidemia, non potendo contare su dati ufficiali affidabili, e la precarietà del sistema sanitario pubblico libanese ha spinto il team di operatori di Mediterranean Hope impegnato nei corridoi umanitari a rientrare in Italia. Malgrado ciò il lavoro di Medical Hope cerca, anche se con comprensibili limiti, ad andare avanti contando sulla presenza in loco del nostro collaboratore siriano. 

Il nostro piano di lavoro prevede infatti due appuntamenti settimanali effettuati via Skype col Libano nel corso dei quali stabiliamo l’iter diagnostico-terapeutico dei pazienti che abbiamo in follow-up (i controlli dopo le cure, ndr).  Ad essi forniamo supporto mediante consulenze medico/specialistiche, esecuzione di tests di laboratorio e strumentali, fornitura di farmaci. Tutto ciò avviene grazie al budget di Medical Hope assicurato dall’Otto per mille dell’Unione delle Chiese Battiste. 

Continuiamo inoltre ad accettare referrals (segnalazioni, raccomandazioni da parte di un medico di base allo specialista, ndr) di pazienti da parte di altre organizzazioni per i quali cerchiamo di disegnare percorsi diagnostici che permettano di affrontare successivamente le possibili soluzioni ai problemi presentati. 

Un ultimo aspetto, ma certo non meno importante, riguarda le ricadute della epidemia sul diritto di asilo. Le  misure di contenimento e le restrizioni alla mobilità legate alla epidemia non devono essere usate, come sta purtroppo accadendo in primis in Europa, per bloccare il diritto dei rifugiati ad accedere all’asilo. La pandemia non è stata causata dai migranti,  i diversi Paesi possono, e devono, approntare misure di quarantena che mettano al riparo dell’infezione sia le popolazioni ospitanti che i migranti.

 

Foto di Barbara Battaglia: Tripoli, Libano