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Il Coronavirus e la guerra

Ho passato la mia adolescenza e i primi anni della giovinezza in un clima di guerra. Quando alla fine degli anni Novanta arrivai a Milano da Belgrado – una città ancora devastata dalla guerra e dalla lunga crisi economica – pensai che non avrei mai più provato quel senso di isolamento, d’insicurezza, di paura e di smarrimento collettivo, che avevo conosciuto. 

La prima cosa che vidi di Milano era la piazza del Duomo e ancora oggi posso rivivere quella sensazione. 

Meraviglia e bellezza si stendevano in tutto il mio corpo, mentre guardavo i visi rilassati, spensierati e sorridenti della gente che passava. 

Ricordo che pensai che per la prima volta nella mia vita vedevo persone felici che camminavano per strada senza tensione e ansia sui volti. Sembravano tutti bellissimi. 

Quello fu l’istante in cui mi innamorai di Milano, dell’Italia. 

Ora cammino per le stesse strade e vedo poche persone preoccupate e spaventate che fanno la fila davanti al supermercato, che riempiono i carrelli di qualsiasi cosa per il terrore di rimanere senza il necessario per sopravvivere, proprio come facevano i miei genitori e le altre persone in Serbia. 

La polizia, i controlli, i militari e i blindati per le strade mi riportano alla Serbia della mia adolescenza

Non riesco a smettere di pensare a questo e a paragonare quella situazione di guerra a questa pandemia. 

Cosa è uguale, cosa è diverso, cosa è più pericoloso e se prevale la solidarietà di una comunità o l’individualismo e la competizione. 

Qual è la differenza tra la Serbia sotto dittatura e povera di venti anni fa e l’Italia ricca e democratica del 2020? 

Un paragone impossibile, ma comunque continuamente presente nella mia mente. Qui non cadono le bombe, la gente non gira armata, la maggioranza delle persone non muore di fame. 

Ciò che mi sembra uguale è la paura delle persone, forse più forte e tangibile per il virus, perché è un nemico invisibile che ti colpisce di nascosto, non ti accorgi che entra dentro il tuo corpo. 

Un’altra cosa che ritengo uguale è che ora, proprio come accade in una guerra, i più fragili, i più deboli, i più poveri siano quelli colpiti di più, e senza che nessuno, quasi nessuno, se ne accorga e se ne preoccupi. In un certo senso vale la legge del più forte. 

Me ne sto rendendo conto in questi giorni, mentre per ore “incontro” al telefono Rom e i Sinti di tutta Italia. 

Sono terrorizzati, perché consapevoli che stando nei campi in uno spazio limitato, e molto abitato, sono più a rischio degli altri. 

Sono preoccupati perché consapevoli che le loro comunità, per via della bassissima qualità della vita e con un numero più alto di persone con problemi di salute, rischiano la vita se si infettano. 

Sono arrabbiati perché, essendo lavoratori precari, venditori di cose usate nei mercatini – non hanno pressoché nessun guadagno.

Per non parlare di chi sopravvive chiedendo l’elemosina.

Ma anche quelli che hanno un’attività propria, come i giostrai e i lavoratori dello spettacolo viaggiante, che da generazioni con grande amore e sacrificio portano avanti le loro attività, sono alla fame. Nessuno ha pensato di inserirli nelle categorie da sostenere e da aiutare economicamente, in questo momento di emergenza. 

Mi chiedo com’è possibile che ancora nessuno abbia pensato che in queste situazioni di grave disagio si debba pensare a distribuire il cibo in questi luoghi e a queste persone. 

Questo si faceva 20 anni fa anche in un paese «non civile» e non democratico in guerra, se non per altro per una motivazione di ordine pubblico e di quiete sociale, perché è difficile immaginare che le persone che non hanno da mangiare rimangano chiuse in casa, aspettando di morire di fame.

Per parte nostra abbiamo chiesto alle autorità competenti di iniziare a distribuire generi alimentari di prima necessità, non solo ai Rom e ai Sinti, ma a tutti quelli che ne hanno bisogno, di inserire la categoria di giostrai e lavoratori dello spettacolo viaggiante nei decreti per aiutare e sostenere la cultura e le imprese, e di assicurare che ci sia l’acqua disponibile per tutti, anche nei luoghi irregolari, perché è assurdo dire alle persone «che si devono lavare le mani per non ammalarsi» e poi lasciarle senz’acqua.

Io continuo ovviamente a essere innamorata di Milano e dell’Italia e a pormi degli interrogativi. 

Non dovrebbero esserci delle differenze, nei momenti drammatici e di emergenza, tra paesi civili e incivili, tra paesi democratici e non democratici, tra paesi in guerra sotto le bombe e paesi in guerra con un virus?

L’articolo è stato tratto dal sito Kethane.org – Rom e Sinti per l’Italia