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Siamo ancora una chiesa che sa pregare?

Le chiese protestanti nel nostro paese, a seguito delle norme emanate dal Governo, come stiamo raccontando in queste settimane, hanno messo in opera varie iniziative online per svolgere, per quanto possibile, culti, studi biblici e catechetica a distanza. Ma nello stesso tempo hanno iniziato a riflettere e approfondire i ragionamenti su che cosa significhi, oggi ma anche domani, essere chiesa, e sui vari modi di “vivere la chiesa”. Il primo intervento è stato quello di Winfrid Pfannkuche, pastore della chiesa valdese di BergamoOra Roberto Davide Papini si interroga sul posto che nelle nostre chiese ha la preghiera.

 

Già provati dalla quarantena forzata (certo nulla rispetto a chi lotta contro il virus: i pazienti e chi li cura con abnegazione), siamo stati ulteriormente fiaccati dalla riproposizione dell’indulgenza plenaria in occasione della preghiera solitaria di Bergoglio in piazza San Pietro, il 27 marzo. Nel web le reazioni protestanti sostanzialmente sono state tre: indifferenza; una certa delusione di chi crede nell’ecumenismo; una malcelata soddisfazione di chi guarda con sospetto il dialogo con i cattolici, accompagnata dal sottinteso: «Visto? Ve l’avevo detto…». Di certo è stato un piatto indigesto per noi protestanti accompagnato da una scenografia televisiva suggestiva che un po’ contrasta con la “sobrietà” che ripetiamo di continuo come una caratteristica di cui andiamo tanto fieri. Andrebbe, però, ricordato che il dialogo lo si fa con l’altro per come è, non per come vorremmo che fosse per poi parlare di “passo indietro” se continua a essere come è. Tuttavia, sarebbe un errore soffermarsi solo sugli aspetti indigesti (e ci aggiungo anche le due “icone sacre”) di quel pomeriggio, senza cogliere altri punti importanti.

Al di là di quell’immagine, così potente dal punto di vista emotivo, del Papa che prega da solo in una piazza vuota sotto scrosci di pioggia, in quel momento ho avuto chiara e “plastica” l’immagine di una chiesa che prega e che crede nel valore della preghiera. Il messaggio di Bergoglio in quel pomeriggio è stato forte ed evangelico: siamo tutti sulla stessa barca, nessuno si salva da solo, invitiamo Gesù «nelle barche delle nostre vite (…) con Lui a bordo, non si fa naufragio».

La potente scenografia non ha oscurato la sincerità di una chiesa che prega. Siamo anche noi delle chiese che pregano? Ci affidiamo in preghiera a Dio ogni giorno e ancor di più, come è umano, in giorni drammatici come questi? Karl Barth ci ricorda che «essere cristiani e pregare è una sola e medesima cosa. È un bisogno, una sorta di respirazione necessaria per vivere». Lo è per noi?

Certo, si dirà, ognuno lo fa nella propria “cameretta”, nel proprio cuore. Nella sua bella riflessione sulla solitudine nel numero scorso di Riforma, Winfrid Pfannkuche, ci dice che «la preghiera per gli altri è preceduta dall’incontro fra te e Dio. La preghiera serve anzitutto a me stesso: se non sono, prima di tutto, io stesso irrobustito dalla preghiera, cioè consapevole della mia precarietà e dipendenza dall’aiuto di Dio, non sarò nelle condizioni di intercedere per nessuno».

Ma la preghiera (così come il silenzio) ha anche una sua dimensione comunitaria: possiamo dire che è al centro della nostra vita di chiesa, oltre che personale? Certo, si dirà, siamo una chiesa che agisce, che opera alla luce degli insegnamenti del Vangelo, ma come ci ricorda il pastore battista Piero Bensi «operare e pregare sono strettamente uniti, tanto che l’uno non può stare senza l’altro: sono i due volti della nostra fede». Ecco, ho l’impressione che talvolta la preghiera sia un po’ in sottofondo nelle nostre chiese, non in primo piano. Non dobbiamo dimenticare quanto ci dice il teologo Vittorio Subilia: «Una comunità è una comunità viva e fraterna soltanto quando sa diventare una comunità di preghiera». Quel giorno in piazza San Pietro, pur nella solitudine del Papa sotto la pioggia, ho avuto la sensazione di “una comunità di preghiera” e questo potrebbe darci lo spunto (dopo le giuste critiche a quanto riteniamo inaccettabile) per interrogarci sul nostro rapporto con la preghiera. Cercando, magari, di non essere solo “una chiesa che opera”, ma anche “una chiesa che prega”.