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Il cristianesimo non offre risposte sul Coronavirus. Non dovrebbe.

Nicholas Thomas Wright è un vescovo anglicano e teologo inglese. È vescovo di Durham e uno dei principali studiosi del Nuovo Testamento del mondo anglosassone, nonché autore prolifico: in Italia i suoi libri sono stati pubblicati dalla casa editrice Claudiana, fra questi “Che cosa ha veramente detto Paolo”, “Gesù di Nazareth. Sfide e provocazioni”, “Risurrezione”, ” Quale Gesù. Due letture”, “L’apostolo Paolo”.

E’ docente di Nuovo Testamento all’università scozzese St. Andrews, la più antica della Scozia.

È considerato un esponente dell’evangelicalismo moderato e uno dei maggiori interpreti della cosiddetta “Terza ricerca del Gesù storico”.

Wright ha pubblicato un articolo sullo storico settimanale statunitense Time, dedicato alle risposte che vengono chieste al cristianesimo in tempi di crisi, per cui anche in questi tempi dominati dalla paura per l’esplosione del Coronavirus.

Peter Ciaccio, pastore della chiesa valdese di Palermo, ne ha tradotto ampi stralci che riporoniamo qui di seguito quali interessanti spunti di riflessione.

 

«Per molti cristiani le restrizioni di movimento legate al coronavirus sono giunte insieme alla Quaresima, il tempo caratterizzato dal “fare a meno”. Ma le nuove dure norme (niente teatro, scuole chiuse, arresti domiciliari virtuali per noi ultra-70enni) ridicolizzano le nostre piccole pratiche quaresimali. Fare a meno del whiskey o del cioccolato è un gioco da ragazzi se paragonato al non vedere gli amici o i nipoti, al non potere andare al pub, in biblioteca o in chiesa. C’è un motivo per cui noi solitamente cerchiamo di incontrarci di persona. C’è un motivo per cui l’isolamento è una pena molto severa. E questa Quaresima non ha nemmeno una Pasqua certa da aspettare con impazienza. Non possiamo spuntare i giorni. C’è una calma, non di riposo, ma di dolore, allo stesso tempo composto e teso.

Non avevamo dubbi che gli sciocchi soliti sospetti ci avrebbero raccontato perché Dio ci sta facendo questo. Un castigo? Un avvertimento? Un segno? Queste sono reazioni impulsive paracristiane in una cultura che da generazioni ha sposato il razionalismo: tutto deve avere una spiegazione. Ma riusciamo a immaginare che potrebbe non esserci una spiegazione? Che la vera umana sapienza non corrisponda a riuscire a mettere insieme una serie di speculazioni raffazzonate, in modo da dire «Allora tutto a posto»? E se, dopotutto, ci fossero momenti come quelli individuati da T.S. Eliot nei primi anni Quaranta, quando l’unica cosa sensata da fare è aspettare senza speranza, perché avevamo sperato la cosa sbagliata?

I razionalisti (inclusi i razionalisti cristiani) vogliono spiegazioni; i romantici (inclusi i romantici cristiani) vogliono tirare un sospiro di sollievo. Ma forse ciò di cui abbiamo più bisogno è invece la riscoperta della tradizione biblica del lamento. Il lamento è ciò che avviene quanto le persone chiedono «Perché?», senza ricevere risposta. È dove arriviamo quando andiamo al di là della nostra preoccupazione egocentrica sui nostri peccati e sui nostri fallimenti e diamo uno sguardo più generale alle sofferenze del mondo. È certamente brutto affrontare una pandemia a New York o a Londra. E in un campo di rifugiati su un’isola greca? E a Gaza? E nel Sudan del Sud?

A questo punto i Salmi, l’innario della Bibbia, tornano utili, proprio mentre alcune chiese sembrano averli ignorati. «Abbi pietà di me, o Signore», prega il Salmo 6, «perché sono sfinito; risanami, o Signore, perché le mie ossa sono tutte tremanti». «O Signore, perché te ne stai lontano?», chiede lamentoso il Salmo 10, «Perché ti nascondi in tempo d’angoscia?» E continua: «Fino a quando, o Signore, mi dimenticherai? Sarà forse per sempre?» (Salmo 13). E, ancora più terribile, perché Gesù lo citò nell’agonia sulla Croce: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Salmo 22).

Sì, queste poesie spesso si illuminano alla fine, con una rigenerata consapevolezza della presenza e della speranza di Dio, che non spiega il motivo dei guai, ma offre conforto in quella situazione. Però, a volte vanno in senso opposto. Il Salmo 89 comincia celebrando la bontà e le promesse di Dio e poi, d’un tratto, dichiara che tutto è andato terribilmente male. E il Salmo 88 comincia nell’infelicità e si conclude nell’oscurità: «Hai allontanato da me amici e conoscenti; le tenebre sono la mia compagnia». Una parola per questi tempi di auto-isolamento.

Il punto, intrecciato nella trama della tradizione biblica, è che il lamento non è solo lo sfogo delle nostre frustrazioni, pene, solitudini e della totale incapacità di capire cosa stia succedendo o perché. Il mistero della narrazione biblica è che anche Dio si lamenta. Alcuni cristiani amano pensare a Dio come al di sopra di tutto, onnisciente, che controlla tutto, calmo e non toccato dai problemi nel suo mondo. Non è questa l’immagine che troviamo nella Bibbia.

Dio «si addolorò in cuor suo», sostiene la Genesi, a causa della violenta malvagità delle creature umane. Era distrutto quando la sua sposa, il popolo d’Israele, l’ha abbandonato. E quando Dio è tornato dal suo popolo in persona (se non parla di questo, la storia di Gesù non ha senso), ha pianto sulla tomba di un amico. Paolo parla dello Spirito Santo che geme dentro di noi, mentre noi gemiamo dentro il dolore di tutta la creazione. L’antica dottrina della Trinità ci insegna a riconoscere l’Unico Dio nelle lacrime di Gesù e nell’angoscia dello Spirito.

Pertanto, non fa parte della vocazione cristiana essere in grado di spiegare cosa stia succedendo e perché. Anzi, fa parte della vocazione cristiana non essere in grado di spiegare (e invece lamentarsi). Come lo Spirito si lamenta dentro di noi, così noi diventiamo, anche nell’auto-isolamento, piccoli santuari dove la presenza e l’amore terapeutico di Dio possa stare. E da questo possono emergere nuove possibilità, nuovi atti di gentilezza, una nuova comprensione scientifica, una nuova speranza. Anche una nuova saggezza per chi ci governa? Be’, questa è un’idea!».

 

Nella foto di Gareth Saunders il vescovo Tom Wright