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La gratitudine come simbolo di umanità

Sameh Ayed è arrivato in Italia nel 2010 alla ricerca di un lavoro su cui costruire il proprio futuro. Ha iniziando facendo il pizzaiolo a Canonica in provincia di Bergamo e poi, dopo aver lavorato come commesso in un negozio di frutta a Fara Gera d’Adda ha aperto un’attività sua. Ora che è diventato un fruttivendolo a tutti gli effetti, per poter ringraziare il Paese e la comunità dell’accoglienza ricevuta, ha deciso di regalare i prodotti del suo negozio. In questo momento complicato per la sua provincia e per i suoi clienti ha organizzato un tavolo pieni di arance, mele, zucchine, ananas fuori dalla su attività a Canonica d’Adda con un cartello in bella vista che recita: «dieci anni fa mi avete accolto, ora voglio dirvi grazie. Andrà tutto bene! Se avete bisogno prendete gratis la frutta e la verdura che trovate su questo tavolo».

«Vi siete mai chiesti quante volte nella vita avete detto grazie sul serio? Un vero grazie. Espressione della vostra gratitudine, della vostra riconoscenza, del vostro debito. A chi?»
Michka è donna che è stata per tutta la vita una stimata correttrice di bozze di una grande rivista. Ora si ritrova in una residenza per anziani persa in un mondo disordinato e confuso. Un’assistenza continua la fa sentire meno sola e meno nostalgica della sua vita di prima, ma le parole che iniziano ad annebbiarsi nella mente, le difficoltà di un’età che avanza sempre di più la rendono fragile e vulnerabile. Michka accoglie la sua vecchiaia con riluttanza, consapevole di non avere alternative, in un limbo asettico e bianco in cui i colore e il calore arrivano solo da Marie, la vicina di casa, e Jérôme il terapeuta del linguaggio della casa di riposo.

Un rapporto quello di Michka, con i suoi inconsapevoli alleati, fatto di parole che traballano e di confessioni inestimabili. Chiacchierate che riescono ad andare al di là degli esercizi per mantenere il linguaggio vivo, attivo e occasioni per rivivere il passato. Ed è proprio dall’infanzia di Michka che riaffiora la consapevolezza di avere ancora una parola in sospeso. Forse l’ultima, di certo la più importante: riuscire a ringraziare la famiglia che l’accolse durante la guerra. Un gesto che le concesse il dono della sopravvivenza, della vita stessa. E saranno proprio Marie e Jérôme ad accogliere questo desiderio facendolo proprio in una promessa che diventa viaggio che si trasforma in scoperta.

Delphine de Vigan (Boulogne-Billancourt, 1966) torna a raccontare l’umanità sparpagliata nel mondo tenuta insieme dal collante dei sentimenti più forti. In una scrittura didascalica, in cui il dialogo sgangherato e dolcissimo di una vecchietta che perde le parole per esprimersi centra in pieno la commozione e la tenerezza, l’autrice francese riconosciuta a livello internazionale, esorcizza il tabù della vecchiaia e dei ricordi che scivolano via con una delicatezza inconfondibile già dalle prime righe. «Vi siete mai chiesti quante volte al giorno dite grazie? Grazie per il sale, per la porta, per l’informazione. Grazie per il resto, per il pane, per il pacchetto di sigarette. Grazie di cortesia, di buona creanza, automatici, meccanici. Quasi vuoti. A volte omessi. A volte troppo insistiti: grazie a te. Grazie di tutto. Grazie infinite. Grazie mille».

Dopo Le fedeltà invisibili (Einaudi, 2019) de Vigan riporta in un romanzo piccolo e intimo il peso gravoso e spesso dimenticato di una parola che spesso sfugge dal suo significato nella quotidianità che assorbe, distrae e fa dimenticare. Un’occasione per fermarsi a pensare e a ricordarci l’ultima volta in cui abbiamo detto davvero grazie.

Le gratitudini, Delphine de Vigan, Einaudi, 160 p, 17,50 euro