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Dalla pandemia al sogno di una tregua in Yemen

Lo scorso 23 marzo, mentre anche gli ultimi angoli del mondo riconoscevano di avere un problema chiamato Covid-19, inizialmente negato da molti leader, il segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, si era rivolto ai Paesi in guerra nel mondo chiedendo un cessate il fuoco globale, con lo scopo di impedire che, in zone già indebolite dai conflitti, il Coronavirus potesse portare tutti a fondo.

Forse con un eccessivo pessimismo, erano in pochi ad attendersi qualche tipo di risposta da aree del mondo in cui la voce del diritto internazionale è spesso del tutto ignorata. Eppure, da diversi scenari di conflitto sono arrivate notizie di un accordi temporanei per sospendere le violenze. In Camerun, per esempio, la milizia separatista Socadef ha annunciato di aver sospeso le proprie azioni militari nell’area anglofona del Paese, mentre dalla Siria le Forze Democratiche Siriane, che controllano il nord-est della Siria, hanno offerto la propria disponibilità alla tregua, anche se finora è rimasta una voce isolata.

Il caso più interessante, tuttavia, rimane probabilmente lo Yemen, dove l’inviato speciale delle Nazioni Unite, Martin Griffiths, ha annunciato la tregua tra la coalizione a guida saudita e i ribelli Houthi, in conflitto dal marzo del 2015. Le due parti in guerra, infatti, hanno dichiarato di voler “fare fronte comune” contro la pandemia.

Attualmente non ci sono casi confermati di infezioni da coronavirus all’interno dello Yemen, ma le organizzazioni sanitarie e gli esperti hanno avvertito che il paese, impoverito e in difficoltà, potrebbe pagare un prezzo altissimo di fronte all’aumento dei contagi, visto che milioni di persone non hanno accesso all’acqua pulita e al sapone e più della metà delle strutture sanitarie yemenite non sono accessibili perché distrutte o abbandonate.

Una buona notizia, quindi, per un Paese entrato nel suo sesto anno di guerra senza la prospettiva di una via d’uscita politica. Eppure, è necessaria grande cautela. Lunedì 30 marzo l’Arabia Saudita ha annunciato l’interruzione delle proprie operazioni militari come gesto di approvazione all’accordo tra le parti ufficialmente in causa, ovvero il presidente riconosciuto internazionalmente, Abd Rabbuh Mansur Hadi, e la milizia Houthi.

Tuttavia, fino al giorno prima il livello di violenza è rimasto elevato, nonostante già dallo scorso 25 marzo tutti avessero sottoscritto un “cessate il fuoco” evidentemente rimasto soltanto sulla carta. Venerdì 27 marzo, infatti, l’Arabia Saudita ha dichiarato di aver intercettato e distrutto tre droni dei ribelli Houthi nel proprio territorio. Il giorno dopo, Riyadh ha annunciato di aver intercettato due missili balistici, uno lanciato contro Jizan e l’altro contro la capitale. L’accusa rivolta agli Houthi, in entrambi i casi, è quella di voler far naufragare la tregua, alimentando un conflitto di cui l’Iran è ritenuto corresponsabile per ragioni di egemonia regionale. La nuova dichiarazione, dunque, va presa con cautela, mentre è fondamentale osservarne le ricadute sul terreno, dove la popolazione non si può in alcun modo permettere l’azione combinata della guerra e della pandemia.

Si ritiene che dall’inizio del conflitto, almeno 110.000 persone siano state uccise nel Paese, e che almeno 11 milioni siano a rischio sanitario, in un Paese in cui oltre il 90% delle attrezzature mediche sono fuori uso.

Provando a sfruttare l’onda della disponibilità delle parti in conflitto, il Gruppo di Esperti sullo Yemen istituito dall’OHCHR, l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani, ha cercato di richiamare l’attenzione su uno dei luoghi più preoccupanti dello Yemen in guerra, ovvero le carceri. I prigionieri, si legge nel documento, sono particolarmente vulnerabili e a rischio di morte, perché le strutture detentive sono sovrappopolate e le condizioni sono disastrose, a partire dalla disponibilità di cibo e fino agli standard minimi di igiene. La richiesta è quella di rilasciare i prigionieri con pene residue più brevi, come fatto da alcuni Paesi in queste difficili settimane. Tuttavia, nessuno sembra aver colto finora questo appello.

La speranza ora è che questo cessate il fuoco possa reggere almeno quanto basta per affrontare l’emergenza sanitaria, un risultato minimo, ma che di fronte a oltre cinque anni di violenza e silenzi sembra quasi una vittoria. A livello diplomatico, l’idea è che questo spiraglio possa diventare un’occasione vera e propria, come sostenuto anche dalla Francia, che ha invitato i cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni unite a unirsi all’appello di Guterres. Tuttavia, l’operazione sembra avere davvero poche possibilità di successo, vista l’opposizione della Russia e quella degli Stati Uniti, che per ragioni diverse non sembrano, in questo momento, voler avviare un percorso comune di interruzione di conflitti che spesso li vedono su fronti opposti.

Foto di Felton Davis: Child Observing Sanaa Ruins