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L’infermeria partigiana

Medici in prima linea, infermieri che si sacrificano, persone addette agli ospedali contagiate, posti-letto insufficienti, medici che muoiono nel tentativo di salvare gli altri. In questi giorni, per alcuni veramente drammatici, mi sono ricordato della storia dell’infermeria allestita nel 1944 dai partigiani in val Troncea. Naturalmente non è possibile paragonare un’epidemia a un situazione di guerra con i suoi morti e feriti in certo qual modo preventivati. E tuttavia vale la pena rileggere una storia meno nota, fra quelle della Resistenza (*).

Per curare i partigiani feriti, una prima struttura fu realizzata a Sestriere, per iniziativa del dottor Cerrina e del farmacista di Sestriere, dottor Sacco, con l’aiuto di tre donne: Paltrinieri, Agudio e Sacco.

Successivamente, a Laval, all’imbocco della val Troncea, nella vecchia casa parrocchiale, Paolo Diena, studente al 4° anno di medicina, riuscì a costruire un ospedaletto da campo; ai primi di luglio la direzione fu affidata al dottor Bermond, medico condotto di Oulx, ricercato dai tedeschi, che già stavano risalendo la val Germanasca. I feriti furono allora trasportati da Laval all’Alpe dei Poveri, gruppo di baite semi-interrate nell’alta val Troncea. Diena tornò nella zona di combattimento; l’8 agosto i feriti leggeri vennero condotti nel vallone di Rodoretto, ma, in seguito, per sfuggire al nemico ritornarono in val Troncea e riuscirono a passare in val di Susa. Nell’infermeria c’erano ancora 40 feriti: i più gravi restarono lì, occultati fra le rocce, molto distanti l’uno dall’altro: gli altri seguirono il dottor Bermond che riparò in Francia. A Le Roux i feriti ebbero le prime cure e ad Abries il medico riuscì a impiantare la nuova infermeria.

Paolo Diena rimase a Laval con due infermieri, Mario Buzzi e Bruno Scoussat, e con i feriti più gravi: Barral, Donnini, Paolasso, Moro, Dino, Pietro, Bruno, Raviol. Si sentivano gli spari sempre più vicini e gli ordini gridati in tedesco. Nell’infermeria, oltre alle ferite dolorosissime da curare, c’erano spesso complicazioni polmonari, febbre, una volta si dovette ricavare con il coltello da un rametto di larice una siringa per fare le iniezioni. La giornata era fatta di freddo, fame, pioggia, isolamento. Diena faceva anche il rifornimento di acqua, cercava qualcosa da mangiare alle baite vicine ma spesso non trovava niente e allora non restava che scavare con le mani per cercare qualche patata.

Il 6 di settembre la prima neve era scesa sul col Clapis, il dottor Bermond, dopo avere aspettato inutilmente i medicinali richiesti, tornò a Laval e trovò Paolo Diena; i feriti furono di nuovo portati all’Alpe, poi si delineò la possibilità di ospitare i più gravi negli ospedali della val Pellice e si decise di condurvi subito Remo Raviol, che rischiava di perdere un occhio. Tenendolo sempre per mano, Diena guidò Raviol attraverso la valle di Salza a Maniglia, Chiabrano, Pramollo, Malanaggio e finalmente a Luserna San Giovanni. Fu ospitato a casa della zia di Sergio Toja, infine visitato dal professore Arnaldo Malan ma, purtroppo, per l’occhio non c’era più niente da fare. Compiuta la missione, Paolo Diena rientrò in valle con un gruppo di partigiani, furono sorpresi dai nazifascisti a Cotarauta, sopra Inverso Pinasca. Il “dottore dai capelli rossi,” così era chiamato Paolo Diena, fu abbattuto da una raffica di mitra; Sandro Borda finì a Mauthausen, Cesarino Castagno e Remo Masserotti nelle carceri di Saluzzo, Fiorello, giovane fiorentino, venne portato a Bergamo da dove riuscì a fuggire e a tornare in val Chisone.

*Tutte le notizie sono ricavate dal libro di Angela Trabucco, Partigiani in Val Chisone, Tipografia Subalpina, 1959