istock-127825106

Pensare e agire nell’incertezza

Stiamo vivendo un momento storico epocale. Il Coronavirus, come tutte le pandemie nella storia dell’umanità, porterà a trasformazioni che ancora non siamo in grado di prevedere. Era da un secolo, dall’influenza “spagnola”, che il mondo non si confrontava con una crisi sanitaria del genere. È quanto mai il tempo dell’incertezza, della paura e della rabbia: tutte emozioni che erano radicate nella nostra società ben prima della pandemia e che necessitano di un bersaglio su cui scaricarsi. Da qui la caccia all’untore, il proliferare delle teorie del complotto (fra cui anche quelle negazioniste), la polemica fra Stati e via dicendo. I politici nostrani imprenditori della paura, di fronte a una crisi reale, sembrano aver fatto un passo indietro, ma non ci illudiamo: torneranno alla carica, magari travestiti da medici in un carnevale osceno. L’occasione è troppo ghiotta per rinunciarvi. Non vi è dubbio, si poteva fare di più: siamo stati colti di sorpresa e questa è una colpa. I nostri servizi sanitari, e di conseguenza tutti noi, pagano ora il prezzo di politiche scriteriate di tagli e di privatizzazioni. Tutto andrà rivisto in modo radicale, senza più tentennamenti.

Ma l’incertezza e la paura sono cattive consigliere e non ci aiutano certo a ragionare. Sono stato particolarmente colpito da un dibattito accademico che si è aperto in questi giorni di crisi a seguito di un articolo di Giorgio Agamben pubblicato su Il Manifesto del 25 febbraio, quando la pandemia era ai suoi esordi. Agamben, uno fra i più noti esponenti della cosiddetta Italian theory, vedeva nella risposta alla pandemia un’ulteriore conferma di uno Stato di eccezione che si fa paradigma di governo: le misure d’emergenza, adottate dal nostro governo e man mano anche da altri, erano a suo avviso irrazionali e immotivate e con il fine ultimo di limitare le libertà individuali. Un’uscita certamente inopportuna e dai toni negazionisti, dettata forse dalla smania di affermare la veridicità del proprio pensiero. E tuttavia la reazione a questo articolo, che io stesso avevo letto con fastidio vista la situazione, è stata eccessivamente livorosa (vd. articolo di P. Flores d’Arcais su MicroMega del 16 marzo) e si è scaduti in un atteggiamento censorio e insultante. Agamben ha scritto un pezzo infelice, tutti sbagliano, ma il suo pensiero potrà tornarci utile in un futuro prossimo quando ci sarà da ragionare su quanto i dispositivi emergenziali messi in atto (a breve probabilmente anche il controllo dei nostri telefoni) rischino di minare le nostre libertà e la democrazia. 

La polemica sorta intorno ad Agamben non è una quisquilia meramente accademica. A mio avviso ci insegna qualcosa, ovvero che in questo momento è opportuno essere prudenti senza che questo ci porti ad autocensurarci. Un equilibrio faticoso: stare nell’incertezza è tremendamente difficile, soprattutto in una società come la nostra dove viviamo continuamente proiettati in un futuro che ci illudiamo di conoscere e di poter controllare. E pertanto mi limito qui a proporre una riflessione, nient’altro che una mia opinione, forse di poco conto, ma tant’è. In questo momento drammatico e di emergenza vera è opportuno essere pragmatici e partire dalle priorità, rinunciando per un po’ a formulare teorie onnicomprensive che tutto sommato, per quanto catastrofiche, ci consolano perché ci illudono di aver il controllo della situazione. Dobbiamo quindi fare di tutto per frenare il contagio, consapevoli che non esiste la bacchetta magica, poco da fare, e vien da dire “come fai sbagli”. Dobbiamo pensare alla gente che soffre e ai loro cari ed evitare che questa sofferenza dilaghi. A breve dovremo pensare ai milioni di poveri che questa crisi produrrà e quindi alle politiche nuove che dovremo adottare per far fronte alla situazione.

Ma un pensiero pragmatico non è sufficiente, ci vogliono dei principi che lo guidino e che orientino l’azione. Questa epidemia qualcosa dovrà pur ben insegnarci: innanzitutto, solo la solidarietà e la cooperazione a tutti i livelli, nazionale e internazionale, potranno aiutarci a venirne fuori in tempi ragionevoli, per quanto lunghi. È una sfida globale che non può essere affrontata chiudendoci nella miseria del sovranismo e questo vale per tutti e ovunque. L’altro orizzonte è la giustizia sociale, perché le malattie non sono neutre, ma si accaniscono sui più deboli e questo rischia di essere particolarmente vero in un mondo così diseguale. Vi è poi la questione ambientale che non potrà più essere affrontata soltanto a parole come si è fatto allegramente sin ora. 

Le crisi fanno emergere il peggio ma anche il meglio delle società. Dobbiamo essere vigili per evitare che il peggio dilaghi, farebbe più danni del virus.