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Afghanistan, sotto attacco una comunità che scompare

Non c’è pace per nessuno in Afghanistan. Poche settimane fa, a Doha, Stati Uniti e Talebani avevano firmato un accordo per porre fine a una guerra cominciata a fine 2001 e che da allora è costata al Paese quasi 200.000 vite, oltre a tutte quelle di chi ha cercato di lasciare l’Afghanistan, cancellando due generazioni di persone e senza offrire prospettive di costruzione di uno Stato. Quell’intesa, che si spera possa rappresentare un punto di partenza per un progetto di pace, non è altro che una goccia nel mare di un conflitto che coinvolge molteplici piani.

La dimostrazione è arrivata nel mattino di mercoledì 25 marzo, quando un gruppo di uomini armati ha attaccato un tempio della minoranza Sikh nel cuore della città vecchia di Kabul. L’attacco, che secondo quanto riporta il sito di monitoraggio dei gruppi terroristici SITE Intelligence Group è stato rivendicato dal Daesh (o gruppo Stato Islamico), ha coinvolto almeno 200 persone che si trovavano all’interno del luogo di culto. Le notizie, frammentarie e in continuo aggiornamento, parlano di decine di persone uccise, tra cui un bambino, e almeno 150 ostaggi, mentre il ministero degli interni dell’Afghanistan ha affermato che, anche se la polizia era nelle vicinanze del gudwara, il luogo di culto, gli aggressori hanno continuato a sparare, ennesimo segno dell’impotenza di uno Stato tutto da ricostruire. Immediatamente dopo l’attacco, il portavoce talebano Zabihullah Mujahed ha invece voluto sottolineare l’estraneità del suo gruppo, impegnato, come si diceva, in un incerto processo di pace.

L’attacco, il secondo dal 2018 compiuto dal Daesh contro questa minoranza in Afghanistan, riporta alla luce la difficile condizione dei sikh nel Paese. Si stima infatti che oggi siano soltanto 1.000 i sikh e indù in Afghanistan, sottoposti a diffuse discriminazioni sin dall’inizio della dominazione talebana negli anni Novanta. I numeri dei fedeli sono in costante diminuzione, al punto che diversi osservatori temono che la preseza dei sikh nel Paese, vecchia almeno 500 anni, sia vicina alla fine. Le stime attuali parlano infatti di circa 300 famiglie e di due soli luoghi di culto rimasti operativi: uno a Jalalabad, città colpita nel 2018, e appunto quello di Kabul. Per capire quanto la situazione sia degenerata, dieci anni fa erano 3000 i fedeli, mentre prima dell’ascesa dei Talebani a metà degli anni Novanta la comunità contava su 50.000 persone. Addirittura, secondo documenti storici reperibili sul sito dell’università canadese della British Columbia, negli anni Quaranta erano 200.000 gli appartenenti alla comunità sikh nel Paese.

La discriminazione di questa minoranza ricorda per certi versi, pur su scala nettamente minore, quella dei Rohingya in Myanmar: anche qui si tratta di persone etnicamente indigene della regione e, soprattutto per quanto riguarda la prima “ondata” di sikh, si tratta di persone che si opposero all’islamizzazione dell’area intorno al 1520. Tuttavia, da decenni non vengono considerati cittadini alla pari degli altri: durante il controllo dei talebani, negli anni Novanta, i sikh dovevano identificarsi pubblicamente con bracciali gialli e contrassegnare le loro case e attività commerciali con bandiere gialle, una norma imposta ma scarsamente applicata. Inoltre, la tradizione sikh di cremare i morti si è rivelata una fonte significativa di tensione con la maggioranza musulmana, a causa del divieto imposto nell’Islam a questa pratica, al punto che spesso i corpi devono essere trasportati in Pakistan.

Sempre più fedeli di questa comunità oggi chiedono asilo politico in India, dove il governo nazionalista indù di Narendra Modi si dimostra molto disponibile, paradossalmente nel pieno di una campagna anti-musulmani che da mesi crea proteste, scontri e nuove violenze.

Foto: interno del tempio Sikh di Gurdwara, oggetto dell’attacco di oggi