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«No alla retorica della guerra. Sì a comportamenti virtuosi»

Padre Antonio Spadaro, direttore de La Civiltà Cattolica,  accoglie con cortesia la richiesta di un breve colloquio telefonico su questo nostro tempo, il tempo del coronavirus, o Covid- 19.

Padre Spadaro, l’informazione è chiamata a una grande prova, sembra quasi aver ritrovato la sua funzione per la società. Gli sforzi sono evidenti. Resiste però qualche tendenza alla spettacolarizzazione? E’ un rischio? Si riesce a veicolare la consapevolezza del dato globale?

L’informazione svolge una funzione fondamentale per la società, oggi più che mai. Ed è chiamata a una grande prova in questo momento. Il rischio ovviamente è quello di “spettacolizzare” quanto sta accadendo. Mi capita per motivi di lavoro di sentire ogni giorno persone di diverse nazioni, di diversi continenti e alla fine quello che accade è che di questi tempi i discorsi che si fanno sono sempre gli stessi. Si parla della stessa cosa, della pandemia. Questo significa che in qualche modo il virus ha unito il mondo ma significa pure che il mondo rischia di “spettacolizzare” quello che sta avvenendo. A volte persino i dati, le cifre sembrano mirare più alla sensazione, al sensazionalismo, piuttosto che all’informazione. Ovviamente ci sono tanti casi di informazione equilibrata, ponderata. L’importante di questi tempi è non puntare a fare audience, ma a dare dignità a questo momento. Aiutare gli altri. Questo è un grande momento in cui possiamo esprimere la nostra capacità di coesione sociale: per me va detto in tutto i modi. E questo tempo va affrontato con creatività e generosità. Molti i casi di solidarietà digitale legati alla crisi che viviamo. La Civiltà Cattolica come altre testate, ad esempio, ha deciso di aprire gratuitamente online i propri contenuti. In ogni caso l’informazione – e le infrastrutture che la permettono – va tutelata, specialmente in questo momento: è essenziale. Basti pensare, in un momento come questo nel quale molti accedono all’informazione via internet, che cosa potrebbe significare una interruzione della rete: un gravissimo problema per la democrazia.

Si usano le parole e le immagini per creare ponti tra noi, o vede anche la tendenza a usarle come pietre, contro Paesi, culture, segmenti sociali?

Questo deve essere un momento di grande unità: non devono prevalere le divisioni. La comunicazione può aiutare a diffondere un messaggio che aiuti ad avere comportamenti virtuosi. In questo senso le parole possono essere usate viralmente come pietre, cioè essere lanciate contro le persone a proprio beneficio. Basta alzare i toni per ricevere ascolto in questo momento in cui la gente ha paura. Solleticare la paura della gente oggi è facile, produce consenso, ma è del tutto irresponsabile. Abbiamo assistito anche a una continua retorica della guerra, come se noi fossimo in guerra, come se ci fosse bisogno di un atteggiamento militare, militaristico. Non siamo in guerra, bisogna rifiutare queste retoriche. Qui non c’è da inventarsi un «nemico», ma c’è una grave emergenza sanitaria. Si capisce immediatamente come questo tipo di retorica sia funzionale a un disegno politico pericoloso: bisogna resistere. La parola dell’informazione oggi è chiamata a costruire ponti; ponti invisibili tra le persone che sono chiuse in casa, ma proprio per questo più disposte alla comunicazione, all’informazione, a essere dunque soggetti all’influsso delle parole. Per questo oggi occorre responsabilità. Per me il modello del giornalista è il medico. Sono i medici che stanno curando le piaghe, le ferite. Già nel 2002 l’allora cardinale Bergoglio aveva paragonato il comunicatore al buon samaritano, cioè a colui che sana le ferite, che innanzitutto le tocca. Con coraggio, con forza, con decisione, con verità, l’obiettivo deve essere quello di toccare l’altro per sanarlo. Quindi certamente mettendo in luce i problemi, denunciando se necessario, ma non per spaccare il Paese, bensì per unirlo.

L’ultimo numero di Civiltà Cattolica, la sua rivista ci mette al corrente delle cifre incredibili relative alla vittime di altri infezioni, ancora oggi. Cifre che sconvolgono. Ha scritto sulla vostra rivista padre Andrea Vicini: “Si stima che, nel 2019, 37,9 milioni di persone nel mondo siano state positive al virus Hiv. Se consideriamo le stime complessive dall’inizio della pandemia, le persone risultate sieropositive sono 74,9 milioni, con 32 milioni di decessi causati dall’Aids6.
Si calcola che, nel 2018, 3,2 miliardi di persone vivessero in aree a rischio di trasmissione della malaria in 92 Paesi del mondo (soprattutto nell’Africa sub-sahariana), con 219 milioni di casi clinici e 435.000 morti, di cui il 61% erano bambini con meno di 5 anni. Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, 10 milioni di persone in tutto il mondo si sono ammalate di tubercolosi nel 2018, con oltre 1,2 milioni di decessi, di cui l’11% tra bambini e ragazzi con meno di 15 anni”. Leggere questo oggi impone una domanda: perché questa  informazione non ci riguarda?

E’ interessante cercare di comprendere quali sono le cifre dei vari contagi, delle varie epidemie della storia. A volte le cifre ci sorprendendo, perché sono cifre molto alte rispetto a quelle attuali. Ci sono stati momenti anche più drammatici di questo. Allora si tratta di capire meglio, non per sottovalutare, assolutamente no, ma capire meglio le proporzioni è molto interessante comprendere come nella storia si sono succedute questa vicende pandemiche e quali reazioni ci siano state. Questo ci aiuterà a vedere gli errori che sono stati fatti e quindi anche a prevenirli oggi. Tuttavia bisogna considerare una cosa: questa è la prima pandemia al tempo dei social, una pandemia al tempo dell’informazione globale, quando il mondo è un unico Paese, nel quale quel che accade in Italia viene immediatamente saputo in Cina, o negli Stati Uniti. E non solo: l’informazione è diffusa capillarmente e anche le emozioni connesse alle informazioni. Questo cambia molto la percezione di ciò che avviene. Questa inoltre è la prima pandemia al tempo dell’iperconnessione fisica grazie alla democratizzazione dei viaggi aerei intercontinentali. Perché si diffonde la pandemia? Perché la gente viaggia. Quindi i numerosi viaggi hanno diffuso il virus. Gli aerei ti portano da un capo all’altro del mondo in non più di dodici ore e così un’infezione contratta in un luogo del pianeta arriva all’altro capo del mondo in mezza giornata. Questo deve farci riflettere su come il mondo sia cambiato, e quindi su quanto sia assolutamente urgente e necessario pensare il nostro modo di considerare il fenomeno pandemico. Come ha detto, credo quattro anni fa, Bill Gates ci siamo concentrati completamente sulla deterrenza nucleare e ci siamo dimenticati che la fine del mondo potrebbe arrivare non da una guerra nucleare ma da una pandemia terribile. Ci sono state delle epidemie molto forti nel mondo. Ci ricordiamo tutti dell’Ebola, ad esempio. Tuttavia queste epidemie sono nate in luoghi dove non c’era grande transito di persone non locali, e quindi sono rimaste molto localizzate.  Però ci rendiamo conto che oggi sempre più difficilmente può accadere questo. Il mondo è più unito e dunque la questione delle pandemie va affrontata in maniera assai più sistematica.

La convince lo slogan “andrà tutto bene”? Non si dovrebbe usare questo tempo anche per riflettere su perché non stia andando bene?  Papa Francesco ci ha detto questo parlando dell’evasione come causa della mancanza di unità di terapia intensiva che prima dei tagli c’erano? Riflettere su questo ci aiuterebbe a capire meglio anche la Laudato si’?

Lo slogan “andrà tutto bene” mi convince, nel senso che mi piace usarlo perché credo importante mandare messaggi positivi. In questo momento servono messaggi di speranza. E sono anche convinto che ne usciremo. Ho sentito poco fa un mio amico di infanzia che adesso fa il medico a Bergamo. Era disperato per la situazione, per ciò che vede davanti a sé, ma era pure convinto della necessità di alimentare la speranza per andare avanti. Certamente però serve una riflessione critica. Capire perché tutto questo è accaduto è importante, anche perché il fatto che sia accaduto adesso non significa che non potrà avvenire in un prossimo futuro. Quindi dobbiamo orientare la nostra riflessione sulle cause, anche remote, che hanno fatto sì che questo virus si sia diffuso. C’è qualcosa nella nostra cura della casa comune, nel nostro rapporto con la natura, che non funziona. La scienza può aiutarci a comprendere che così non possiamo andare avanti.

Tratto da articolo21.org